Qualche anno fa era venuto di moda – seguendo la consueta pratica cara a intellettuali, politici e dirigenti di copiare ottusamente e senza discernimento qualsiasi cosa provenga dall’altra sponda dell’atlantico – il termine workfare, inteso come modello alternativo al classico welfare state (molto meglio sarebbe dire: stato sociale); esso doveva consistere in politiche attive volte ad evitare gli effetti disincentivanti sull’offerta di lavoro, collegando il trattamento previdenziale e assistenziale allo svolgimento di un’attività di lavoro. Nessuno pare, aveva pensato che la centralità del lavoro – con ben altro spessore etico e con ben altre ambizioni – sta alla base della nostra Costituzione e, più in generale, si pone per il nostro ordinamento come fondamento della vita civile.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un’affermazione così forte, posta come primo articolo a fondamento della Costituzione, dovrebbe necessariamente spingere a riflettere sul significato profondo del lavorare e sulla dignità che il lavoro dovrebbe avere nel nostro ordinamento civile. Non occorre neppure cercare molto poiché l’articolo 4 della Costituzione esprime un concetto molto chiaro:
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Se nella Costituzione Italiana il termine “lavoro” è citato più volte (19 per la precisone, mentre il termine lavoratore/lavoratrice è citato 9 volte), parlare di lavoro di questi tempi, è quanto mai difficile. Specie se il lavoro manca, se si fatica a fronteggiare il flusso implacabile delle bollette e dei pagamenti mensili, se si è uno dei tanti italiani artigiani o piccoli imprenditori costretti a chiuder o a vendere tutto per tentare di restare a galla. A maggior ragione se tocca subire il rito quotidiano della celebrazione del PIL e degli indici di borsa, l’insulto della glorificazione mediatica dell’iper-ricchezza, il bombardamento pubblicitario che invade ogni spazio, ogni luogo e ogni orario, per convincere tutti che bisogna sempre e comunque consumare per far girare l’economia.
L’Italia appare oggi una Repubblica che si vorrebbe fondata sul consumo, dipinto prima come la via maestra per raggiungere la felicità poi come comportamento necessario per mantenere il sistema economico. L’attenzione sul consumo mortifica la dignità del lavoro rendendolo meramente strumentale, un mezzo che, in quanto tale, non porta con se il piacere della realizzazione personale, il gusto della cosa ben fatta
Troppo spesso il lavoro, per chi ha la fortuna di averne uno ben remunerato, è il mezzo per ottenere il denaro necessario ad accedere all’acquisto di beni e servizi sempre più inutili e perciò stesso assolutamente indispensabili. Il lavoro espresso in termini di occupazione è una variabile sempre meno importante nelle equazioni che descrivono l’obbligatoria crescita del PIL e alimentano il feticcio intoccabile della crescita. Per troppo tempo il lavoro è stato interpretato come diritto al possesso di un posto, fisso e garantito: un’epoca che sembra finita ma permane come un miraggio nella mente di molte persone; è tramontata in buona parte l’idea del lavoro come investimento per costruire un futuro migliore che richiede anche fatica e sacrificio (molti lavori si rifiutano malgrado la crisi), è venuta meno la convinzione che il lavoro possa essere un mezzo per la realizzazione di sé attraverso lo sviluppo dei propri talenti.
Nell’era della flessibilità globale viene proposta la retorica del soggetto come imprenditore di sé stesso, libero di inventarsi un lavoro o, meglio, obbligato a competere e a combattere in un mercato al quale sono ormai attribuite funzioni trascendenti quasi magiche. Viviamo in società che producono più di quello che riescono a consumare, con uno spreco scandaloso, che riguarda soprattutto i beni essenziali, a cominciare dal cibo. Malgrado questo, o forse a causa di questo, i ricchi diminuiscono e diventano sempre più ricchi, i poveri aumentano e diventano sempre più poveri. Lo Stato – che dovrebbe garantire l’attuazione dei principi costituzionali – privato delle leve attraverso le quali poter agire nell’economia, trasferite all’Europa e ormai saldamente in mano alle forze finanziarie (private) che la dominano, non è più in grado né di ridistribuire ricchezza in modo equo ne di rilanciare e ridare dignità al lavoro.
Il lavoro appunto. Mentre migrazioni bibliche riversano nel Belpaese un flusso incessante di persone ora attirate dai benefici e dei vantaggi di quel che resta dello stato sociale, ora impegnate nella ricerca con ogni mezzo dei denari per la sussistenza, raramente in grado di raggiungere il sogno di uno stipendio che, giudicato col metro dei paesi di provenienza, rappresenta spesso un’autentica fortuna economica. Mentre ogni anno centinaia di migliaia di persone, in gran parte giovani e preparate, spesso laureati ed imprenditori, escono o forse fuggono dall’Italia per cercare fortuna in Europa e nel mondo.
E intanto, inesorabilmente, l’automazione distrugge posti di lavoro ad un ritmo crescente, grandi infrastrutture tecnologiche e digitali sempre più integrate ed efficienti (in modo per altro assolutamente autoreferenziale) interconnettono sistemi e sottosistemi che a loro volta rapidamente si industrializzano e finanziarizzano. Le fabbriche intelligenti consentono di produrre a costi così bassi, con i quali neppure la manodopera sottopagata dei paesi più miseri riesce a competere. Da anni un sistema industriale sempre più automatizzato, produce più di quello che la popolazione è in grado di consumare ma, per la sua stessa logica di funzionamento interno, deve continuare a crescere producendo sempre più beni e servizi, ma ormai senza che a questa crescita corrisponda un analogo aumento dell’occupazione.
Siamo entrati, sembra, nell’epoca della fine del lavoro preconizzata ormai 20 anni fa da Jeremy Rifkin; siamo entrati, forse, nell’epoca della liberazione dalla schiavitù del lavoro anticipata e desiderata dagli utopisti.
Ma, alla faccia delle generazioni future, nessuno ha pensato a come 7 miliardi di persone potranno vivere, in pace, in questo nuovo ambiente dove le tecnoscienze possono condurre sia alla realizzazione del sogno utopico che alla materializzazione dell’incubo dispotico. A forza di mirare alla massimizzazione del profitto a breve termine (dottrina economica dominante per decenni), a forza di vivere in una colpevole cultura dell’emergenza (in cui molti hanno lucrato), a forza di tatticismi basati su interessi enormi ma di breve respiro, per timore di parlar chiaro e perdere il consenso (questo è lo spirito politicamente corretto), si sono persi per strada i valori (ridotti a pura finzione retorica) e si è persa di vista ogni strategia di lungo periodo. Paradossalmente ma non troppo la liberazione dalla schiavitù del lavoro apre per molte persone il baratro della paura e dell’insicurezza.
Che fare dunque? Continuare a spostare le decisioni che contano verso i meccanismi sempre più impersonali dei mercati e dell’industria finanziaria? Distruggere le Costituzioni che pongono limiti allo strapotere dei mercati e della finanza? Sperare che siano gli algoritmi di macchine enormemente intelligenti ad affrontare i drammatici dilemmi che ci si parano di fronte? Ignorare il problema e continuare a far finta di non vedere in ottemperanza ad un modo di pensare che si vuole comunque positivo ed ottimista? Ridare dignità alle religioni oppure credere altrettanto ciecamente nel potere salvifico della scienza? O magari, rimettere la grande politica e la Costituzione al centro delle strategie per un futuro migliore?
Quanti dei potenti di turno, palesi e occulti, si saranno posti seriamente la fatidica domanda: che fare?
Se ancora si vive in democrazia questa domanda riguarda tutti. Vivere con una diversa idea di lavoro tutta da inventare, in un contesto caratterizzato dall’abbondanza di beni materiali superando definitivamente la logica del consumismo bruto e la cultura dell’usa e getta, è una sfida che ricade direttamente nelle pieghe del quotidiano di ognuno. Per affrontarla serviranno grandi cambiamenti istituzionali oltre che un deciso salto nel livello di consapevolezza della persone.
In una civiltà globale il cui ambiente è sempre più infrastrutturato e interconnesso dalle tecnologie digitali, che, in prospettiva, potrebbero favorire una migliore e più efficiente allocazione delle risorse e dei beni prodotti dall’industria integrata, a vantaggio di ogni abitante della terra, nasce l’esigenza di rivedere completamente l’idea di lavoro a cui molti di noi sono ancora legati. Per farlo bisogna però uscire da stereotipi consolidati e da logiche autoreferenziali dove siamo tutti più o meno intrappolati, bisogna imparare a guardare l’insieme senza perdersi nel confortante specialismo del particolare. Per abbracciare l’intero l’economista deve uscire dall’economia, l’uomo d’affari dalla finanza, l’imprenditore dalla sua azienda, il cittadino qualunque dal senso comune costruito dai media.
E bisogna mettere in discussione quei concetti che usiamo tutti i giorni senza comprenderne la struttura profonda e il diverso significato che essi assumono nei discorsi di differenti persone. Anche per il lavoro, che resta ancora il fondamento della nostra Costituzione e un elemento costitutivo dell’identità della maggioranza dei cittadini: questa situazione drammatica deve aprire altre prospettive, deve portare a pensare ad altre soluzioni che vadano oltre l’attuale modo di intendere il lavoro.
Se le macchine hanno sostituito gran parte del lavoro manuale, se poco alla volta diventano capaci di svolgere buona parte dei compiti cognitivi associati a molti lavori, se sono in grado di gestire processi sempre più complessi, è compito degli uomini (in particolare di quanti si occupano di politica) trovare nuove strutture sociali che consentano di trarne beneficio diffuso e condiviso. Se mancano posti di lavoro, bisogna individuare forme di remunerazione non fondate esclusivamente sul lavoro, invertendo un meccanismo secolare basato sul concetto di colpa, fatica e punizione (“ti guadagnerai il pane col sudore della fronte”), bisogna ripensare il lavoro come strumento generativo, capace di costruire relazioni e capitale sociale, bisogna recuperare l’idea del lavoro come atto amorevole del prendersi cura (di qualcosa o qualcuno) assumendosene liberamente la responsabilità, bisogna imparare a vivere con pienezza l’ozio creativo, capace di generare senso e identità. Serve un uomo nuovo per vivere in questa nuova società possibile.
Intanto però, pensando al futuro possibile, bisogna riuscire a cavarsela: se la politica sembra far poco, se mancano i leaders e gli statisti capaci di guardare alle future generazioni, anziché alle prossime elezioni, se tutto sembra essere in mano a una finanza totalmente impersonale, e sostanzialmente amorale, ricordiamo che l’Italia appare a molti osservatori come una Repubblica fondata sull’arte di arrangiarsi. Insieme alla creatività diffusa (che molti ci invidiano) e alla capacità di non perdersi d’animo, essa rappresenta nello sfascio generale quasi una virtù che, in tempi turbolenti, non è affatto da sottovalutare.
Sperando che anche questa estrema risorsa non sia andata perduta insieme alla dignità del lavoro, al gusto dell’onestà e a quel poco di orgoglio che servirebbe per sentirsi felicemente italiani.