La civiltà in cui viviamo sembra comportare per moltissime persone livelli molto alti di stress che finiscono col gravare molto negativamente sulla qualità della vita oltre che impattare sulla qualità del lavoro svolto. Tutto questo è da tempo oggetto di studio in campi disciplinari differenti, che contribuiscono ad illuminare un aspetto della vita contemporanea molto diffuso. Tutto questo può essere ed è valutato utilizzando in modo intelligente la cassetta degli attrezzi del e della professionista della valutazione.
La sindrome da burnout è l’esito patologico di un processo stressogeno che interessa professionisti che sono impegnati ripetutamente in attività che implicano relazioni interpersonali.
Il termine burnout è stato introdotto in letteratura nel 1974 da Herbert Fraudenberg. Letteralmente significa “bruciato” “scoppiato”.
Le componenti della sindrome si manifestano attraverso:
– un deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro;
– un deterioramento delle emozioni originariamente associate al lavoro;
– un problema di adattamento tra la persona ed il lavoro, a causa delle eccessive richieste di quest’ultimo.
Essendo questo un problema che riguarda professionisti impegnati sistematicamente in attività stressogene all’interno di studi professionali, aziende sanitarie ma anche aziende di produzione (anche qui si devono gestire rapporti con colleghi, direzione, acquirenti, etc…), è stato studiato da diverse angolature e proprio per questo si presta ad alcune considerazioni di tipo valutativo.
Non solo, professionisti con competenze diverse hanno cercato di analizzare il problema e trovare risposte a questo malessere attraverso le loro conoscenze e l’ancoraggio alle singolo discipline praticate. Ad esempio:
– Gli psicologi si sono concentrati e si concentrano sulla misurazione dello stato di “benessere” dei singoli professionisti. A tale proposito un test conosciuto e usato è l’ SF36. Tale test misura la qualità della vita operazionalizzata in “autopercezione della salute”. Mentre la gran parte degli strumenti sulla QdV presenta un’elevata sensibilità alla misurazione del distress (star male), l’SF36 contiene misure di salute positiva.
– Gli economisti che si occupano di sviluppo organizzativo tendono a considerare una certa percentuale di soggetti in burnout come “fisiologica” rispetto alla dotazione umana di cui può disporre un qualunque sistema produttivo/relazionale. Il problema è, se mai, decidere quale sia una soglia fisiologica e quando la presenza di soggetti in bornout è segnalatore di un problema organizzativo dell’azienda stessa.
– I sociologi parlano del burnout in termini di categorie sociali e fanno importanti considerazioni su quali categorie sociali e professionali sono più soggette a tale fenomeno. Sicuramente ci sono categorie professionali in situazione più potenzialmente stressogena di altre. Inoltre i sociologi studiano il trend storico del fenomeno, concentrandosi sui periodi in cui se ne è rilevato di più, mettendolo in relazione non solo con eventi stressogeni inter-aziendali ma anche con la concomitanza di eventi stressogeni “sociali” (politici, economici, di flussi di persone, epidemie, etc.,)
– I medici ne fanno una questione epidemiologica. Sono quindi interessati al numero di casi rilevati e allo loro caratterizzazione in termini di discriminanti socio-anagrafiche.
E così via …
Data la complessità del fenomeno e le tante angolature attraverso le quali lo si può studiare, penso che una attività di valutazione seria debba tornare all’epistemologia della valutazione stessa, chiarendo le seguenti mailestones:
1-Chi è il committente della valutazione e cosa vuole sapere.
Quando a commissionare una valutazione sul burnout presente all’interno di un’azienda è la dirigenza dell’azienda stessa, la sola trasparenza su chi è il committente può inficiare gli esiti della ricerca. Cioè i soggetti tenderanno a minimizzare il loro stato di malessere (nel caso ci sia) per paura che questa consapevolezza metta a repentaglio il ruolo lavorativo, la retribuzione, il rispetto della direzione e dei colleghi. Nel caso si usino questionari anonimi la situazione cambia di poco, non ci si sente sufficientemente garantiti rispetto alla messa in trasparenza del problema. Quindi le due possibili soluzioni mi sembrano:
– Riportare il burnout a un problema clinico. Ognuno lo risolve come paziente affidandosi ad un percorso terapeutico/clinico.
– Oppure ridefinire con la committenza il mandato, non lavorando sulla individuazione del burnout esistente, ma lavorando sulla messa in trasparenza delle condizioni che in quella specifica azienda possono facilitare lo sviluppo di situazioni stressogene. Si scopre così che secondo i professionisti coinvolti andrebbero cambiati i turni di lavoro, il mansionario, le pause, il numero di soggetti con cui ogni professionista può entrare i contatto … e così via.
2 – Come rilevare il burnout. Direi che un’attenta analisi coinvolge in maniera multi-professionale gli psicologi che possono somministrare test, i ricercatori sociali che possono animare momenti collettivi di riflessione e ripensamento sul tema, aziendalisti che possono individuare gli svincoli particolarmente stressogeni delle strutture organizzative. Fermo restando che il burnout è un malessere di tipo relazionale e che per questo va individuato e analizzato all’interno delle singole e plurime relazioni agite da ciascuno.
3 – Una volta individuata la presenza di soggetti in stato di burnout che fare? La presa di consapevolezza deve passare dal singolo individuo che vive il malessere alla rete di soggetti con i quali si interfaccia professionalmente, alla direzione dell’azienda nella quale opera. Anche qui il lavoro necessita di multi professionalità: lo psicologo sul singolo, il sociologo sul gruppo, l’aziendalista sulla direzione.
4 – I correttivi devono essere suggeriti a più livelli di competenza e responsabilità e la situazione va monitorato per verificare un suo stato di miglioramento e per impedire il verificarsi di altri casi che seguano lo stesso identico iter. Quindi le azioni correttive dovrebbero essere tempestive ma prevedere anche dei follow up periodici, calendarizzati dall’azienda ma chiari anche al singolo professionista. La sola consapevolezza da parte del professionista che il suo ruolo presenta un rischio di burnout potrebbe metterlo nelle condizioni di meglio sorvegliare se stesso e di “fermarsi in tempo”, oppure di accorgersi meglio e prima del problema vissuto da un collega.
E’ molto complesso trattare questo tema, credo che un valutatore debba tenere conto delle istanze che vengono almeno dalle discipline menzionate cercando di costruire un unità di senso che spieghi il fenomeno in tutte le sue sfaccettature. Tutto questo avendo molto chiaro che il tema della privacy è essenziale e che le abilità di un valutatore in questo contesto non sono tanto quelle della ricerca empirica (che può delegare) quanto quelle di ricucire e chiarificare le varie “visioni”, costruendo un’unità di senso che sia utile e permetta di individuare prospettive future di miglioramento e prevenzione.
Questo è un terreno dove la prevenzione deve lavorare molto.
La valutazione di attività di prevenzione è però molto complessa in quanto i risultati di una qualsiasi attività preventiva sono lontani nel tempo e si interfacciano con tutti gli accadimenti della vita che nel frattempo “capitano” a ciascuno di noi.