La pratica della valutazione è particolarmente diffusa nei servizi sociali e sanitari anche se, purtroppo e con sempre maggiore frequenza, l’accento sulla qualità e sul valore dei risultati viene subordinato alla logica finanziaria ed economica. Un grande sforzo si rende dunque necessario per riportare concretamente la persona nella sua pienezza umana al centro del servizio, per riconcettualizzare il tema del bisogno e per trovare soluzioni creative capaci di superare l’impasse in cui si trova l’intero sistema del welfare. Catina Balotta e Umberto Carrescia (cooperativa sociale Città Azzurra, direttore della comunità il Girasole di Bolzano) suggeriscono – dall’interno del servizio – 5 punti cruciali per dare senso alla valutazione nel settore della psichiatria, da sempre terreno fertile, seppure poco noto, di discussione, di riflessione, di scontro e di innovazione sociale.
Sul modo in cui in Italia (e in Europa) viene intesa e si attua la valutazione dei servizi sociali e sanitari per la psichiatria, esiste una ricca letteratura scientifica e sono numerosi i rapporti di ricerca applicata. Si tratta di un contesto particolarmente complesso, spesse volte caratterizzato dallo stigma sociale, in cui per molti – poco attenti alle giuste pratiche di sensibilità sociale – vale ancora il detto “loro sono matti io no“. Ribadendo che una buona pratica valutativa che possa contemporaneamente “servire”/”essere utile” per gli stakeholder prioritari di tali servizi (enti invianti, gestori, erogatori, operatori, utenti, famiglie degli utenti, cittadinanza attiva) esiste, e pensando che tali forme rigorose di valutazione sappiano rispondere alle esigenze informative/conoscitive/di sviluppo “of all though with varying intensity” pensiamo che le macro dimensioni “valutabili” che delimitano la cornice operativa siano sostanzialmente cinque.
1-La valutazione delle risorse di cui un servizio può disporre, intese sia come risorse strumentali che come risorse umane. Per quanto riguarda la struttura è chiaro che deve essere funzionale, così come non è indifferente avere stanze singole o doppie, un soggiorno grande o piccolo, un giardino oppure no. La forma di valutazione privilegiata è l’osservazione di un esperto. Importanti indicatori osservabili possono essere “da subito”: quante porte sono chiuse e quante no, quante chiavi ci sono, come è tenuta la casa, quanto bella è, anche esteticamente. Gli operatori sono il fulcro della riabilitazione e quindi del successo del servizio sia in termini di risultato sull’utente/paziente, su in termini di risultato sul gruppo degli utenti, sia in termini di impatto territoriale (conseguenza sul territorio e sui suoi abitanti riconosciuta come dovuta all’ubicazione fisica, sociale e relazione di quel servizio, dentro quel momento e dentro quella storia temporale, che, spesso, prevede lavoro di giorni, mesi, anni). Devono essere formati, aggiornati e devono avere una predisposizione personale al costruire rapporti paritari e positivi con le persone con cui lavorano. Importante la loro capacità di insegnare (come si cucina, si riempie una lavatrice, come si stende e si stira …) così come importante è la loro capacità di costruire un rapporto di guida che non sia coercitivo e impositivo ma che sappia attraverso il “bene” che una relazione di scambio sempre facilita, trasmettere prassi e costrutti cognitivi sensati che portino all’autonomia dell’utente/paziente psichiatrico. E’ uno stile di “essere” e “agire” che si impara lavorando e su cui l’esperienza gioca un ruolo chiave. La valutazione aiuta la compliance tra l’idea di servizio teoricamente ritenuta accettabile (e migliore tra le migliori possibili) e la pratica agita dagli operatori attraverso vari tipi di strumentazione: dalle batterie per il riconoscimento del burnout, agli strumenti di costumer satisfaction. Il fulcro del lavoro che si fa “pesa sulle loro spalle” e sono loro il massimo differenziale agibile e valutabile in termini di premessa accettabile che presupponga un’equa qualità erogata (equa nel senso di giudicata “buona” alla luce del modello teorico adottato, dal team del servizio, dalle aspettative dei servizi invianti, dalle attese dei famigliari, queste ultime qualche volta). Spesso non ci sono famigliari per i disabili psichici e se ci sono il [loro] disabile non lo vogliono a casa, perché è di difficile gestione, perché non ha soldi, perché non è facile vedere e vivere come risorsa un rapporto amicale/parentale con persone “strane” (non ci riferiamo qui solo al disagio psichico, ma anche a tutto ciò che si può definire disagio in modo generico).
2- La valutazione dei processi di lavoro: cosa gli operatori fanno, come lo fanno, quali attività si svolgono nel servizio, in quali tempi e modi, con quali obiettivi. In sintesi: il rapporto tra processi di lavoro e obiettivi posti (anche se mai rigidi). Anche gli obiettivi cambiano in base alle nuove conoscenze e in base alle nuove esperienze. Non esiste una esperienza statica su ciò che “va bene” e su ciò che non va/è, su ciò che è salute e su ciò che non lo è, su ciò che [estremizzando] possiamo davvero definire “risultato”. Esiste una qualità erogata osservabile, registrabile, documentabile. Anche su questo la valutazione può fornire strumentazione prima e evidenze rigorosamente e scientificamente costruite/ricostruite, subito dopo.
3- La valutazione dei risultati. Indicatori importanti sono: la diminuzione dell’uso dei farmaci, la diminuzione dei ricoveri, una buona qualità del ritmo sonno-veglia, una corretta assunzione dei pasti, proattività, capacità di mantenere alcune relazioni amicali, autonomia. Esiste la strumentazione per rilevare tali fenomeni evolutivi ed esiste anche molta osservazione che i singoli operatori possono finalizzare alla verifica di tali progressioni (o in-gressioni, o re-gressioni, etc). Qui si incontra il lavoro degli psicologi con quello dei sociologi, dei socio-metristi, dei medici, … ed è così che diventa a volte difficile trovare un accordo sulle evidenze valutabili, sul significato di tali evidenze, sulla strategie conseguenti, sulla necessità di allontanarsi da una strumentazione a volte troppo generica e generalista (un po’ vecchia) per aprire confronti competenti che sappiano davvero tenere conto dei singoli casi, della loro storia, della loro specificità, senza perdere la rigorosità scientifica dimostrabile e la bontà di giudizio esperto e competente. Nelle arene dove professionalità diverse e strumentazione diverse si incontrano, diventa fondamentale una valutazione che sappia proporre paradigmi forti e attivanti da un lato, che sappia farsi carico della difficoltà e complessità dell’azione valutativa in tale contesto e delle diverse angolazioni in cui può essere posta, dall’altro. E’ necessaria un’azione che sappia assumere l’induzione al cambiamento attraverso la valutazione come tratto distintivo dell’azione valutativa stessa (trasformative evaluation, per esempio).
4- La valutazione della rete come outcome territoriale importante, ovvero miglioramento della qualità delle relazioni istituzionali all’interno della quale l’utente è inserito (indicatori plausibili: intensità degli scambi reticolari tra stakeholder piuttosto che diminuzione dei comportamenti di free riding, piuttosto che grado di cogenza dei processi di istituzionalizzazione in corso [“dal dentro al fuori e dal fuori al dentro” Vergani, 2011].
5- E infine la valutazione di impatti intesi come forme di misurazione del benessere riconosciuto da una collettività (ad esempio un quartiere) e scatenati dalla presenza del servizio psichiatrico sul territorio. Difficile lavoro quest’ultimo e pochi riscontri effettivi sul riconoscimento da parte di un qualunque stakeholder dell’importanza di tale dimensione. Non ci sembra di rilevare evidenze del riconoscimento dell’utilità e dell’effettivo sviluppo di capitale sociale legati a tale specificità. Pensiamo che non siano impatti territoriali a “breve scadenza” quelli auspicabili (o meglio auspicabili sempre e poco realisti), ma che ci sia uno spazio futuro legato al valore pedagogico che la presenza di un servizio può facilitare. Questo ci permette di credere che un territorio avrà beneficio dalla esperienza di “prossimità non ghettizzata” del disagio. O meglio è nello “stare con” se non addirittura nel “crescere con” e ancora di più (e meglio) nell’ ”imparare da” che si potrà parlare di impatto territoriale ed enucleare indicatori di impatto sensibili a registrare ciò che davvero succede/sta succedendo. Stiamo parlando della difficoltà (prima teorica e poi applicativa) dell’individuazione di indicatori sufficientemente proxit per evidenziare un fenomeno di riduzione/costruzione sensata del reale che va a definire ciò che è vero (e di conseguenze esistente). Speriamo che il tempo dia ragione di questo “sentire” e che i finanziamenti per tali servizi (e per la loro valutazione in toto – che comunque costa) continuino ad esserci. Anche per una idea di “bene”, definito collettivamente da una comunità territoriale, che sappia riconoscere nella prossimità con il disagio una forma di ricchezza e di forza (e non viceversa). E’ una speranza. Ma chi non la coltiva è meglio non faccia il nostro lavoro. La valutazione degli impatti territoriali è quindi rimandata, ma non abbandonata e nemmeno ritenuta di second’ordine, tutt’altro.
4 Responses to “Valutare servizi per la psichiatria: “loro sono matti, io no””
A due anni dalla stesura di questo post mi è capitato di rileggerlo e di trovarlo più che mai attuale. La storia insegna che in periodi di crisi i problemi sociali aumentano: la precarietà del lavoro e quindi la bassa sicurezza economica, la precarietà dei rapporti familiari e amicali e anche dei contesti nei quali uno vive (legati ai luoghi dove uno lavora, se non addirittura alle nazioni in cui uno spera di trovare una risposta alla sua disperazione), intensificano in maniera esponenziali le situazioni di disagio che poi, purtroppo, sfociano spesso in comportamenti psicotici veri e propri.
Sempre in un periodo di crisi le forme di auto-protezione nei confronti del diverso (sia esso un disabile, uno straniero, un omosessuale, un bambino, etc.) si intensificano fino a concretizzarsi in manifestazioni violente e razziste.
Diventa quindi sempre più difficile contestualizzare servizi di contrasto al disagio in aree urbane che li sappiano accettare pacificamente (se non apprezzare, non pretendiamo troppo) e diventa una vera scommessa il reinserimento di soggetti “recuperati” in contesti sociali che li possano valorizzare per quello che sono e per quello che sanno fare, garantendo loro la protezione necessaria ma anche l’autonomia dovuta e vivifica.
Scrivo per precisare che gli autori del post hanno cercato di guardare i servizi per la psichiatria cambiando entrambi il loro stile osservativo più usuale. L’occhio di Umberto è passato dal “Dirigere” il servizio a “valutarlo internamente”. Il mio dalla valutazione esterna a quella interna. Io non vivo nel servizio, Umberto che lo dirige in parte sì. Lo sforzo fatto è stato diverso: nel primo caso cercare di superare i pregiudizi dei “nativi” nel secondo caso fare il contrario: diventare per un po’ un etnometodologo (di riflesso).
Aggiungo un breve commento (solo mio) ai due post precedenti: può sembrare strano ma la componente umana “sofferente e sfaccettata” si impone all’attenzione in maniera molto prepotente. E’ più difficile tenere comunque uno stile osservativo rigoroso e “sociologicamente/valutativamente” accettabile, che fare il contrario … cioè si rischia di essere travolti dalle relazioni possibili, senza rigore, senza schemi, senza pretese di scientificità. Travolti e basta, con tutte le conseguenze del caso.
E’ sempre molto difficile addentrarsi nei territori del disagio psichico; difficile per i profani difficile per gli esperti che, in quanto tali, rischiano sempre di soffocare attraverso lo specialismo quell’umanità emergente così diversa e sofferente. Da non esperto mi vengono in mente Alda Merini, Antonio Ligabue e la vasta schiera di artisti eccelsi sempre sospesi tra il genio e la pazzia. Persone eccentriche rispetto al mondo dei cosiddetti sani, che molto hanno patito ma moltissimo hanno dato e continuano a dare attraverso le loro opere. Agendo in questo spazio di confine, in una terra di nessuno forse, credo che una buona valutazione debba unire il giusto rigore metodologico ad una straordinaria sensibilità, la chiarezza del linguaggio ad una comprensione genuinamente umana, i numeri e le statistiche alle storie che hanno un ruolo fondamentale nel dar senso al nostro vissuto umano. Solo a tali condizioni essa può innestare quei processi di apprendimento organizzativo centrati sulla persona così importanti per il miglioramento dei servizi.
La lunga ed interessante disamina di dimensioni, significati, oggetti e di quant’altro caratterizzi il contesto valutativo all’interno dei servizi finalizzati alla promozione del benessere per i portatori di disagio mentale, mi sollecita nell’importanza di ricollocare quanto sopra al puro servizio dell’umano (non dell’utente, non del paziente), ribadendone l’assoluta centralità.