In ogni organizzazione ma in particolare nelle Pubbliche amministrazioni l’impegno e la motivazione degli operatori, dei quadri e dei dirigenti sono fondamentali per garantire la qualità delle performance.
C’è ancora qualcuno convinto che in una organizzazione le risorse più importante siano le persone? C’è chi crede che valorizzando le “risorse umane” si possa migliorare la qualità della Amministrazione Pubblica? Ci saranno ancora impiegati e funzionari orgogliosi del loro ruolo e della loro funzione e per questo disposti a dare sempre il massimo? Se le risposte sono positive, se si crede che il cambiamento passi attraverso le persone e non solo tramite le prescrizioni normative, allora si ammette che le persone sono degli attori strategici e non le rotelle passive di un ingranaggio. In quanto attori questi signori esercitano delle competenze, sviluppano delle strategie che permettono loro di sopravvivere e a volte di prosperare in un ambiente spesso difficile se non proprio ostile. La competenza è definibile come l’insieme di conoscenze, di abilità operative, di capacità manageriali, di qualità personali, proprie del contesto, della professione o del mestiere esercitato, che si dimostrano nei risultati raggiunti e nella qualità delle performances realizzate in uno specifico contesto.
Ovviamente la competenza non è solo l’espressione di una conoscenza o capacità acquisita in contesti formali (scuola, università, aggiornamento), ma è, soprattutto, è il risultato di un apprendimento continuo sviluppato in contesti informali e diversificati, all’interno e all’esterno del lavoro. Il neofita che entra in una Amministrazione deve suo malgrado imparare regole, atteggiamenti, comportamenti, uno stile professionale.
I cambiamenti che sono richiesti alle Amministrazioni riguardano anche e forse soprattutto le persone e le loro competenze; la vulgata del cambiamento afferma che queste trasformazioni comportano una modificazione pressoché permanente dei contenuti di ruolo e dei relativi profili ancora troppo spesso agganciati a dizionari ormai obsoleti e costruiti sulla base di mansionari ancorati a tradizioni superate; afferma anche che il cambiamento comporta un investimento finalizzato a costruire contesti organizzativi che sappiano promuovere l’apprendimento, l’iniziativa personale e l’innovazione.
Servono quindi nuovi strumenti gestionali e motivazionali che siano in grado di evidenziare le relazioni tra responsabilità personale ed obiettivi organizzativi, qualità delle attività svolte e conoscenze, atteggiamenti e comportamenti organizzativi, soddisfazione personale e qualità del servizio erogato, obiettivi e responsabilità personali e missione dell’organizzazione.
Oggi è opportuno coinvolgere in questo tipo di percorso tutte le professioni, in quanto, anche a quelle meno specializzate, sono sempre maggiormente richiesti comportamenti flessibili, capacità di interpretare il proprio ruolo in contesti organizzativi dinamici, attitudine a mantenere aggiornate le conoscenze rispetto all’evoluzione tecnica e organizzativa.
Si è di fronte alla richiesta di integrazione tra specializzazione e generica flessibilità: in sintesi alla richiesta di nuove competenze capaci di regolare il rapporto sempre problematico tra tra conoscenze, emozioni, ruolo e cambiamento continuo.
Assumere le competenze come elemento distintivo per la qualità della PA significa innanzitutto attivare processi motivanti di riconoscimento delle storie personali di ogni singolo operatore; sono queste che aiutano a ricomporre sistemi di mansioni e di compiti frammentati che spesso sono stati assegnati in risposta a situazioni di emergenza, e contribuiscono a rendere più complessi e gratificanti compiti bassamente routinari ed altamente usuranti per i quali la migliore risposta sembra essere fornita dalla tecnologia.
Ma che dire delle procedure di assunzione ancora ampiamente in uso in Italia, basate sulla idea di scambio politico; che dire dei formidabili squilibri in termini di pura disponibilità di assunti tra aree e comparti diversi della Pubblica Amministrazione? Che dire delle rigidità delle mansioni che consentono ad un impiegato di oziare mentre il vicino sgobba sommerso di lavoro?
Qui si tratta di costruire strategie chiare, finalizzate a scardinare una sottoculturacultura del lavoro pubblico che genera disservizio, rancore e sofferenza Alla faccia del dipendente fannullone e per riguardo dei tanti onesti che vogliono ritrovare l’orgoglio di essere semplicemente dei bravi dipendenti pubblici.
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2 Responses to “L’orgoglio dell’impiegato pubblico: attivare processi motivanti per costruire competenze”
Antigene, Associazione Nazionale Dipendenti e Utenti dei Servizi Pubblici Locale -“attiva gli anticorpi per organismi pubblici più sani…” http://www.antigene.org
Trovo che il tema del riconoscimento delle competenze professionali degli operatori (li chiamo genericamente così, non se la prenda nessuno) dei nostri apparati pubblici sia scottante e impegnativo.
Negli ultimi 15 anni ho fatto molta consulenza a enti pubblici italiani di medie/grandi dimensioni e posso dire che, salvo qualche oasi rigenerante, ho visto il deserto, per non dire le sabbie mobili.
Mi è capitato spesso do vedere professionisti rassegnati a semplici mansioni routinarie perché il borioso dirigente di turno non permetteva loro alcuno spazio di creatività. I nostri dirigenti pubblici sono spesso soggetti “appoggiati politicamente” che solo in alcuni casi possono dimostrare in maniera trasparente le competenze di ruolo necessarie. In altri casi non si sa nemmeno quali competenze questi dirigenti abbiano, ma questo non sembra importante. Certo sono tutti accumunati da una sorta di “Autoritarismo di ruolo”, per altro riscontrabile in molti sistemi fortemente gerarchizzati e sclerotizzati (situazione estensibile in Italia anche a molti apparati non pubblici, semi-pubblici, solo un po’ pubblici, etc.). Questo autoritarismo di ruolo viene confuso da molti con la competenza.
[Quindi suggerimento 1: spieghiamo loro cosa è la competenza: c’è qualcuno che lo vuole sapere?].
E’ evidente che in tutti i casi in cui la situazione apicale è questa, si assiste ad un assoluto ripiegamento degli operatori sugli adempimenti burocratici, oppure, in qualche raro caso, alla organizzazione della rivolta.
[Quindi suggerimento due: spieghiamo loro a cosa va incontro una rivolta: c’è qualcuno che la vuole fare?].
Poi ci sono alcuni dirigenti bravi che si comportamento diversamente, o almeno ci provano.
[Quindi suggerimento 3: spieghiamo loro che ci si può anche comportare diversamente: c’è qualcuno che vuole provare ad essere diverso?].
Inoltre i pochi dirigenti illuminati lavorano in contesti rigidissimi dove per cambiare qualcosa, si rischia la decapitazione.
[Quindi suggerimento 4: spieghiamo loro i vantaggi della decapitazione: la libertà rende felici: c’è qualcuno che ci crede?].
La cosa davvero sorprendente è che spesso, la decapitazione di cui si diceva, è sponsorizzata dall’operatore di turno che, alienato dal sapere e dal voler fare, attribuisce significato e senso negativo alla ricerca del cambiamento vissuta come l’incipit dell’ennesimo “facciamo finta di cambiare qualcosa così siamo davvero sicuri che non cambierà niente”
[Quindi suggerimento cinque: spieghiamo loro che a volte si può cambiare: c’è qualcuno a cui interessa?].
Il panorama è preoccupante, lavorare sulle competenze è necessario, ma prima bisogna essere sicuri che il contesto sia pronto ad assorbire i cambiamenti suggeriti dalla conoscenza. Altrimenti ci si imbatte in situazioni che aprono la strada a forti tensioni che serviranno solo a portare alla costruzione dell’ennesimo tavolo di lavoro che dovrà occuparsi di:
1 – come piegare le “scoperte” nate dal lavoro sulle competenze alle fantomatiche tensioni organizzative, missioni aziendali, divisione dei ruoli,
2 – per non dire: adesso chi va a pranzo con chi? Chi paga il caffè a chi? Chi innaffia la piantina del dottore? … naturalmente soprattutto su queste ultime questioni serve un tavolo decisionale strutturato perché altrimenti si rischia davvero la rivolta ed il preoccupante e serpeggiante stupore derivato dal fatto che il lavoro sulle competenze possa davvero cambiare le regole del gioco (ultima farse scritta in chiave umoristica, uff.).
[Quindi ultimo suggerimento: lavorare sulle competenze solo quando il contesto organizzativo ha chiaro che questo lavoro può portare ad una messe in discussione delle famose “regole del gioco” ed è disposto a farlo lo stesso].
Quanti sono questi contesti? Pochissimi direi, ma mi auguro che la mia poca miopia si sia riversata tutta qui e che i pionieri dell’analisi delle competenze possano conquistare il far west.