Le risorse più importante nella generazione di processi di cambiamento organizzativo sono, spesso, le persone. Non si vuole con ciò negare l’importanza della strategia, della leadership o della tecnologia, ma, piuttosto, segnalare come il punto di vista soggettivo, il sentire emotivo, le aspettative personali siano variabili molto importanti per spiegare e garantire il successo o il fallimento dei processi di cambiamento.
Nel post \”strategie e competenze strategiche\” sostenevo che il cambiamento in una organizzazione, in particolare in un ufficio pubblico, dipende dalla esistenza di una strategia chiara, condivisa e correttamente implementata. Uno “splendido piano strategico” che venga lanciato ma non trovi realizzazione è semplicemente un fallimento e, dunque, non è neppure una strategia. Questa, è connessa ad un fine ed implica azioni concrete che debbono produrre cambiamento: sulla natura di questo si può discutere lungamente poiché potrebbe risiedere tanto nella trasformazione di un “dato di fatto”, quanto nella modifica degli atteggiamenti e dei pregiudizi su di esso, quanto infine, da un cambiamento generale ed indipendente del contesto. Lo sanno da sempre i politici e, più recentemente, (per opposti motivi) quanti si occupano professionalmente di valutazione di politiche e programmi. Supponiamo allora che il cambiamento di cui si parla sia reale e misurabile e chiediamoci ancora quali siano i meccanismi capaci di avviare e sostenere, o al contrario, impedire, la trasformazione di un sistema organizzato (ad esempio un servizio pubblico), secondo quanto previsto da un piano strategico. Casi di successo e casi di fallimento che sono stati vissuti, osservati e studiati da molto tempo, mostrano come le persone, in particolare le loro emozioni, siano fondamentali; un’emozione primaria negativa come la paura è certo capace di muovere un cambiamento immediato che però non dura nel tempo, lasciando rapidamente lo spazio a comportamenti sabotatori e difensivi generati da ansietà, timore, inquietudine apprensione, delusione, disappunto, preoccupazione. Spesse volte sono questi gli effetti generati da stili manageriali impositivi o da meccanismi incentivanti di tipo esclusivamente economico, soluzioni entrambe che si fondano su una nozione di senso comune, in base alla quale le perone cambierebbero per paura, per la forza schiacciante dei “fatti” o per effetto della applicazione impositiva della forza. D’altro canto un’emozione primaria positiva come la gioia, si traduce in allegria, soddisfazione, entusiasmo, contentezza, speranza, orgoglio, ottimismo; tutti elementi favorevoli allo spirito del cambiamento a sostegno del quale sembra contare di più il “come” rispetto al “cosa”. Nelle organizzazioni pubbliche, dove le alternative exit (cambiare lavoro) e voice (protestare proattivamente) sono poco praticate la delusione e demotivazione del personale che vive troppe emozioni negative va presa molto seriamente.
Compito e segreto del leader, dello stratega, o dell’agente di cambiamento, è proprio quello di governare le emozioni degli altri spostandole verso quelle più propizie a sostenere il processo di cambiamento ipotizzato dal piano strategico: le emozioni infatti, governano le persone e solo le persone realizzano concretamente il cambiamento. Proprio quello che chi si fida troppo della razionalità o del potere amministrativo non sa e non è in grado di fare, convinto che esistano sempre quelli che pensano i grandi sistemi e le grandi strategie e quelli che semplicemente eseguono compiti assegnati dall’alto; persuaso che un modello di cambiamento efficace non debba offrire opportunità di riflessione e sperimentazione, in modo che le persone diventino più consapevoli e responsabili. In Italia, gli uni e gli altri sempre ben tutelati da norme e regole troppo rigide e sempre scusati dei troppi fallimenti che ne derivano.
3 Responses to “Le persone che trasformano le organizzazioni: il cambiamento passa attraverso le emozioni”
Chi lavora in un organizzazione, di fatto quasi tutti, un “po’ del proprio” deve metterlo sempre in termini di lealtà, impegno, disponibilità, e, perché no, un minimo di sacrificio. L’idea di una organizzazione che funziona come un orologio, come una macchina della quale ognuno è un ingranaggio (idea che incredibilmente ha ripreso vigore tra più di un dirigente pubblico) si regge sulla illusione che le funzioni propriamente tecniche siano separabili da quelle relazionali così come la parte di tempo dedicata al lavoro è separabile dal più ampio contesto di vita. Questa metafora emerge con forza dietro alle richieste di meccanismi gestionali automatici basati sulle nuove tecnologie digitali (che in realtà aprono spazi completamente diversi), fa capolino dietro alla domanda di chiarezza dei ruoli e alle descrizioni ossessive di mansionari sempre più codificati. Essa, soprattutto, alimenta quel modo di pensare che orienta le persone a “fare il proprio lavoro” in modo completamente indipendente dagli altri, rispondendo meramente a regole di tipo tecnico ed amministrativo, nel disinteresse sostanziale tanto per il fine che per la missione propria della organizzazione che li paga. Un modo eccellente per far emergere emozioni negative e bloccare ogni tipo possibile di cambiamento.
A proposito di emozioni e della necessità del Leader di conoscere quelle che pervadono l’organizzaione (cioè quelle della gente che ci lavora) a me è piaciuto questo libro: Bernard Rimè: “La dimensione sociale delle emozioni” Il Mulino, Bologna 2005.
A partire da una ampia documentazione scientifica il libro presenta come funzionano le emozioni, il modo in cui si esprimono e regolano e chiarisce la loro indubitabile dimensione sociale. E’ alla società e non ai singoli individui che dobbiamo gurdare per capire il fenomeno delle emozioni. Quindi lavoro da sociologi, senza dubbio.
Leggo con interesse lo scritto di Bruno, tra le diverse stimolazioni, quella mi risuona di più, in questo momento è la connessione tra azioni e persone, le risorse umane.
Sono convinto del valore del binomio persona-ruolo professionale, la capacità di un leader è quella di vedere la situazione che coinvolge i propri collaboratori, di riconoscere le risorse del gruppo di lavoro. La missione del leader è orientare secondo una prospettiva che proceda dal positivo al positivo, la forza motrice del gruppo può diventare quella del benessere. Un cambiamento nel cambiamento a partire dalla consapevolezza dei ruoli,consapevolezza che il leader di un sistema, può e deve sviluppare per dare sicurezza al gruppo di lavoro. Ruoli, obiettivi, strumenti di valutazione sono importanti, fondamentale è l’intento con cui vengono gestiti, lì nasce la differenza tra gli stili di leadership e di conseguenza tra i possibili risultati. Rilancio con una domanda:
quanta presenza c’è nella gestione del proprio ruolo, degli obiettivi e della valutazione?
Presenza fa rima con consapevolezza, è sintonia profonda, è capacità di stare nel proprio ruolo, realizzando il mandato professionale. Presenza è armonia con sè stessi, con l’organizzazione e con le persone.
Buona riflessione.