Ci sono malattie che si nominano solo con un sussurro a bassa voce; ci sono malattie percepite come un’oscura minaccia che portano ancora con se il senso di una condanna. L’esperienza del dolore rappresenta un grande tabù delle nostre società e il paziente, l’ammalato, è innanzitutto un ruolo che deve essere imparato e gestito; dal di fuori è un caso clinico da trattare secondo specifiche procedure, un numero da computare per le statistiche ufficiali. Ma l’esperienza personale del dolore e della malattia è carica della potenza travolgente di tutto quello che la società del consumo e dell’apparenza troppo spesso nasconde; e la valutazione di tutto questo – indispensabile per qualsiasi possibilità di miglioramento delle cure – assume significati del tutto particolari se l’esperta che ne parla e la conduce è stata essa stessa paziente ed ammalata.
Un paziente oncologico è una persona che soffre. Paziente perché è ammalato e perché deve avere molta pazienza (i processi di guarigione sono molto lunghi). Aldilà delle discussioni un po’ sterili sulla definizione di cosa sia “malattia” e di quando davvero si può annoverare un essere umano tra gli “ammalati” , io non avrei molti dubbi: i pazienti oncologici sono persone ammalate. Ammalate per diversi motivi:
– hanno il cancro, quindi se non si interviene on cure idonee (scegliendo quali siano), rischiano di morire in breve tempo;
– hanno dolori di varia natura sia fisici che psichici. Tra i fisici c’è l’astenia, la nausea, la stanchezza, l’anemia, l’abbassamento di tutte le difese immunitarie e, siccome i farmaci chemioterapici sono tossici, una specie di intossicazione generale degli organi vitali, compreso il cervello. Tra i problemi psichici c’è la paura di morire che diventa acuta, la solitudine, l’insicurezza, una preoccupazione costante che spesso impedisce di dormire;
– perdono i capelli e spesso ingrassano e si gonfiano a causa del cortisone che serve per attenuare i dolori di certi tipi di chemioterapia (i taxoli per esempio);
– devono spesso smettere di lavorare e si ritrovano quindi con giornate piene di nulla, fatte solo di televisione e qualche libro (quando la preoccupazione non è così forte da non riuscire nemmeno a leggere);
– frequentano l’ospedale dove vedono persone ammalate quanto loro, se non di più, e ne vedono anche morire (cioè alcuni pazienti dopo un po’ scompaiono e si capisce che sono andati altrove).
Dato tutto questo, il termine “malattia” è appropriato e quindi non resta che interrogarsi su come la valutazione della salute posso aiutare queste persone e il loro processo di guarigione che va dal trauma iniziale di dover diventare improvvisamente un paziente oncologico al passo finale (se il problema si risolve) di reinserirsi socialmente e professionalmente.
1- C’è la valutazione che si occupa delle strutture sanitarie e di cura. Ad esempio le sale chemioterapiche devono essere confortevoli, visto che un paziente in terapia ci passa diverse ore per seduta. Le sale d’attesa devono avere un posto per ciascun paziente in attesa, anche perché un paziente oncologico non riesce a stare molto tempo in piedi. Le pareti della sala è meglio che siano colorate per ricordare a tutti che i colori da qualche parte ci sono ancora e gli ambulatori devono essere facilmente accessibili e isolati acusticamente per garantire la privacy. Molte altre cose si potrebbero aggiungere sulla adeguatezza delle strutture e annoverare quindi il reparto di radiologia e tutte le sue necessarie attrezzature e le camere operatorie con tutto l’arredamento e la fornitura del caso. Ricordo però che il periodo peggiore per un paziente oncologico non è dato dal ricovero o dall’intervento chirurgico, ma da quelle interminabili ore d’attesa prima della chemioterapia e da quei brutti momenti in sala infusione. Quindi è qui che si deve concentrare a parer mio l’attenzione dei valutatori verificando che questi delicati passaggi siano supportati da tutte gli arredi/attrezzature e spazi necessari.
2- C’è poi il problema dei protocolli di lavoro del personale sanitario e dei protocolli terapeutici di ciascun paziente. A questo proposito ricordo che dei protocolli di lavoro del personale è responsabile il management dell’ospedale e dei protocolli terapeutici gli specialisti medici che di fatto li decidono. Soprattutto per i malati oncologici esistono protocolli di cura riconosciuti ormai universalmente, ma la capacità di saperli adattare, cambiare o integrare se necessario, è uno di quei requisiti in più che possono fare la differenza tra l’essere un ottimo specialista e essere un professionista che fa semplicemente il proprio lavoro. Quindi attenzione non tanto a cosa il singolo medico fa ma a come lo fa, con quanta serietà, sensibilità, capacità d’ascolto. Il lavoro sanitario è una missione davvero speciale.
3 – Un terzo aspetto che mi sembra fondamentale è quello dei caregiver. Questa/e figura/e hanno un ruolo fondamentale nel processo di cura e di guarigione in quanto accompagnano la vita di un paziente oncologico per mesi, se non addirittura per anni. Il loro sostegno è fondamentale per la gestione della quotidianità e la loro presenza indispensabile per evitare “abbandoni di terapia” che rischiano di essere fatali. Inoltre i caregiver hanno quasi sempre forti legami di parentela con la persona ammalata e quindi sono anche sottoposti a stati di forte stress che vanno tenuti sotto controllo. Rischiano di ammalarsi anche loro. Mi è capitato di vedere la madre di una paziente oncologica perdere i capelli mentre li perdeva la figlia, pur non essendo sottoposta ad alcun tipo di chemioterapia o altra somministrazione di farmaci. Il supporto ai caregiver è quindi di vitale importanza per il paziente e per i caregiver stessi, che finiscono nello stesso vortice di sconforto degli ammalati e non sempre hanno i mezzi cognitivi e emotivi per sopportare la situazione. Se ci si trova in questa ultima empasse (il caregiver k.o.), il problema diventa gravissimo fino ad arrivare a casi estremi in cui nessuno più desidera la vita (né il malato né il suo caregiver). Credo quindi che la valutazione si debba occupare fortemente di questo ultimo problema mettendo in risalto le difficoltà e la pericolosità di questo equilibrio che va mantenuto, se la guarigione resta la meta da perseguire. Penso che senza caregiver, parenti e amici un malato rischi il collasso non solo fisico ma anche nervoso. Insomma è l’area degli affetti della persona da curare che diventa la leva per il proseguo di terapie che hanno percorsi rigidissimi e debilitanti.
4 – E la società cosa fa? Si prende cura dei suoi malati o questi spariscono dall’orizzonte? (stanno quasi sempre in casa, non lavorano, non acquistano più vestiti, scarpe, borse, profumi … vivono quasi sempre in tuta da ginnastica). Eppure loro ci sono e non per comparire sulle pagine dei socialenetwork come fenomeni da baraccone perché sembrano dei mostri. Ci sono perché hanno il diritto al rispetto, alla cura, all’attenzione e anche alla compagnia. Hanno bisogno di quel contorno emotivo che li rende umani almeno quanto prima. Anche qui la valutazione ha cose importanti da dire. I risultati su un paziente oncologico non sono solo il recesso della malattia ma anche la sua serenità, la sua voglia di ascoltare e di comunicare. Su questo siamo in gioco tutti, nessuno può sentirsi escluso. Anche perché se lo si è adesso esclusi, già domani si potrebbe non esserlo più (ogni giorno vengono scoperti migliaia di casi di cancro). Il passaggio dalla salute alla malattia può essere molto repentino, la forza e la coesione di un intorno sociale si misura anche sulla capacità di gestire questi cambiamenti “in peggio” e di riadattarsi alla nuova situazione trovando le risorse per non “scoppiare”. In tanti casi persone gravemente ammalate sono state abbandonate da amici, parenti … per non dire dal proprio compagno/a. Il “fare i conti” con un dolore quotidiano può essere un esperienza fortemente arricchente e emozionante, ma non va bene per persone immature e egocentriche che trovano un fardello pesantissimo sul loro cammino, senza nessun preavviso. Qui la valutazione deve intervenire con il rispetto e la sensibilità giusta, con la forte capacità osservativa che dei bravi ricercatori hanno imparato, con una disponibilità di tempo che risponde prima alle necessità del “caso” e poi a quelle del “produrre”.
5 – Utile è la presenza di qualche animale: tipo un cane, un gatto, un pappagallo. Gli animali hanno una forte sensibilità per la malattia umana e una grossa capacità di diventare amici fidatissimi in tali frangenti. Avete presente quanto è amico di un cieco il suo cane da passeggio? Ecco, anche coi pazienti oncologici succede la stessa cosa. Ci sono cani che hanno passato mesi accucciati sotto il letto del padrone, o al suo fianco, fino a quando questo non si è rialzato con le sue gambe. Vogliamo dire che questo non debba essere oggetto di valutazione?. Lo è, assolutamente.
5 – Infine è fondamentale la cura dell’aspetto spirituale di una persona. Il sentirsi amati da un “Dio” o, al contrario, puniti perchè ammalati, è un pivot della morte difficile da gestire. Non solo gli aspetti trascendenti legati alla vita e alla morte e le massime dissertazioni umane sul senso della vita diventano strategici e oggetto di interesse del paziente oncologico, ma anche quegli aspetti/pratiche che curano lo spirito: la meditazione, il rilassamento, la cromoterapia… tutti passi da suggerire e sponsorizzare. Devono essere ben presenti tra le possibilità conosciute alle quali si può accedere per star meglio e/o per trovare qualche risposta e qualche “momento” sereno.
Da questa grave esperienza si guarisce in molti casi ma restano delle cicatrici indelebili. E’ come se uno vivesse con dei cubetti di cemento solidificati nello stomaco. Cambiano le priorità: prima gli affetti e poi la salute, per seconda la salute e tutto il resto vien dopo. Si riscoprono valori attraverso una via impervia e dolorosa e si ricomincia a vive una seconda vita che ha ben poco della precedente. Anche questo può e deve essere oggetto di valutazione? Direi di sì … siamo sicuramente alle prese con esperienze professionali estreme con incontri esistenziali che cambiano tutti i soggetti coinvolti nella relazione, ma dai quali si esce rinnovati e consapevoli. Che la valutazione possa mettere in luce anche questo è un mio augurio.
“Alla fine le persone che restano nel tuo cuore sono quelle che hanno saputo starti vicino quando stavi male e lo hanno saputo fare trasmettendo serenità, non viceversa. Non ci può essere egoismo nel donare tempo ad un paziente oncologico e lui lo sa.”
La valutazione incontra tutto questo quando lavora in oncologia e con l’esperienza trasforma i modi/metodi e cambia le prospettive.