In un quadro di grandi cambiamenti lo statuto e il ruolo delle imprese all’interno della società diventa sempre più frequentemente oggetto di riflessione, discussione e polemica. In particolare vi è scontro tra quanti ritengono che lo scopo dell’impresa sia semplicemente fare profitto a favore dei proprietari all’interno del quadro di regole sancite e quanti pensano che la sua responsabilità debba essere estesa alla società e all’ambiente in modo da render conto anche delle esternalità generate.
La globalizzazione va aumentando in misura mai conosciuta prima la distanza tra azione e conseguenze ultime dell’azione stessa: in tale contesto, come afferma Zygmunt Bauman (1992), l’organizzazione nel suo complesso, e l’impresa in particolare, rischia di diventare uno strumento per la cancellazione della responsabilità. D’altro canto non mancano quanti ritengono che l’unico scopo dell’impresa, la sua vera e unica “responsabilità sociale”, sia quello di “fare soldi”, di massimizzare gli utili per la proprietà. Questa ipotesi si regge su una serie di distinzioni teoriche che possono essere così sintetizzate:
– esiste una netta distinzione tra mercato (luogo della produzione e dello scambio efficiente) e stato, agente della redistribuzione, che viene realizzata in base alle norme stabilite e ai meccanismi di tassazione.
– C’è una netta separazione temporale tra produzione e redistribuzione che rappresentano momenti diversi e indipendenti tra loro (prima si produce, poi si distribuisce).
– Il mercato è una istituzione che, contrariamente allo stato, si auto-legittima: l’impresa che di questa istituzione è l’asse portante si auto legittima anche essa in quanto produttrice di quella ricchezza che sarà in parte redistribuita dallo stato.
In quest’ottica l’agire economico risulterebbe di per sé orientato al bene in quanto finalizzato a produrre valore: esso si collocherebbe in una sfera di neutralità protetta rispetto alle dinamiche critiche emergenti dalla società.
Questa posizione che trova più critici che sostenitori viene messa in discussione da molti, in particolare da quanti sostengono l’importanza della responsabilità sociale d’impresa (RSI). Ad oggi non esiste una definizione unica e condivisa di tale nozione: vi sono piuttosto diversi livelli concettuali che consentono di incardinare il discorso sulla responsabilità rimandando a qualche tipo differente di legittimazione etica.
i) Ad un primo livello l’impresa ha l’obbligo di agire nel rispetto di leggi, norme e regolamenti vigenti: il comportamento dell’organizzazione è buono se è conforme alla regola prossima del corretto agire imprenditoriale e alla regola remota della legge. In tal caso non viene dato alcun peso agli effetti diretti e indiretti dell’azione bastando, per così dire, l’attivismo dell’imprenditore e le regole legali entro cui applicarlo.
ii) Ad un secondo livello l’impresa ha tutto l’interesse ad agire tenendo conto del contesto, del mercato, in cui opera: si tratta di una strategia importante per garantire prosperità nel lungo periodo poiché è finalizzata a rafforzare l’immagine e ad incrementare la reputazione sociale e la fiducia dei consumatori e dei clienti. Il governo di tale contesto viene solitamente sviluppato attraverso azioni di marketing e di comunicazione, che si traducono spesso in azioni di filantropia di facciata, sponsorizzazioni, donazioni, contributi.
A ben vedere nessuno dei due comportamenti d’impresa menzionati introduce ancora una genuina nozione di responsabilità sociale: infatti, il rispetto delle leggi (estremamente diverse da paese a paese e con ampi margini di evitamento garantiti dalla pressione delle lobby e dalla corruzione) è (sarebbe) semplicemente un dovere, mentre la cura del contesto, rappresentato principalmente da cittadini e clienti, è uno dei presupposti per la creazione di profitto nel lungo periodo.
iii) La responsabilità sociale dell’impresa si manifesta pienamente quando esiste la disponibilità a tener conto e a rispondere degli esiti prevedibili delle scelte e delle azioni, quando il management non chiude gli occhi davanti agli effetti perversi, alle esternalità negative che spesso sono generate dall’agire economico. La responsabilità esige un controllo della qualità sociale ed ambientale (e non solo economica) delle catene di approvvigionamento e dei processi di uso e dismissione dei prodotti e dei servizi erogati dalla “culla alla tomba”. In questa prospettiva l’autentico vincolo dell’impresa (superando la logica del mero profitto) diventa quello di operare come veicolo per coordinare gli interessi dei vari portatori di interesse (stakeholders).
iv) In una prospettiva strettamente economica l’obiettivo di una impresa è quello di garantire ad un tempo lavoro e profitti nel rispetto delle leggi; da un punto di vista sociale tuttavia, una organizzazione dovrebbe garantire e promuovere lo sviluppo di quelle virtù civiche che sono indispensabili per il buon funzionamento di ogni società; dovrebbe sostenere la coesione delle comunità e contribuire alla tutela dell’ambiente, alimentare il sapere e la cultura, rafforzare o almeno non distruggere il principio di reciprocità.
Con quanti credono nel valore della RSI e in uno diverso modo di pensare alle imprese e al loro ruolo sociale mi piace ricordare l’esperienza straordinaria di Adriano Olivetti; insieme ai critici bisogna però prendere atto che quella Olivetti non è sopravvissuta.
One Response to “La responsabilità sociale delle imprese: 4 passi in una diversa economia”
Una bella visione, in cui l’etica è motore della “purificazione” degli effetti perversi del mercato. Se c’è cultura etica di impresa c’è vera responsabilità sociale, lo trovo sacrosanto. Un percorso lungo ma fortunatamente inevitabile.