Molte persone condividono l’idea che lo scopo di una società democratica e giusta debba essere quello di garantire la soddisfazione dei bisogni dei cittadini che la compongono. Abbiamo in mente una certa idea di bisogno quando ci indigniamo nel vedere milioni di persone soffrire e morire di fame mentre il cibo viene sprecato ed enormi quantità di prodotti agricoli preziosi debbono essere distrutti perché non riescono ad entrare nei circuiti della grande distribuzione. Hanno in mente una certa priorità sociale dei bisogni quanti si indignano nel vedere beni superflui costare meno di quelli assolutamente essenziali o quanti lottano per salvaguardare l’integrità dell’ambiente o la salubrità dell’aria che respiriamo.
Si, la società buona dovrebbe soddisfare i bisogni; ma, appena si tenta di definirli, di chiarire i termini della sfida, la proposizione teorica che sembrava così chiara e condivisibile, calata nel mondo reale, in una società molto complessa e frammentata in differenti sfere di competenza, dominata dal principio del soggettivismo, sembra diventare rapidamente sfocata e si mostra tutt’altro che semplice da mettere in pratica. Chi dovrebbe infatti definire il bisogno e il suo ammontare e in che modo tale bisogno dovrebbe essere affrontato? Che ruolo giocano la politica, la religione organizzata, il sistema dei produttori, le grandi burocrazie, il settore dell’educazione e della cultura, i media, nel definire cosa si debba intendere con il termine bisogno? E cosa contano i cittadini e le famiglie, nell’orientare la costruzione del bisogno sociale posto che, di tali bisogni, dovrebbero essere i portatori? Questi ed altri interrogativi rimandano sempre ad una immagine di uomo e ad un idea di società che, al di là della retorica, si coglie nei comportamenti collettivi, nelle scelte di politica pubblica, nelle pieghe dei sistemi educativi e negli atteggiamenti collettivi di fronte al cambiamento.
1) E’ possibile individuare bisogni fondamentali il cui soddisfacimento possa essere ragionevolmente programmato?
Per il senso comune sembra molto facile definire cosa serva all’uomo per vivere: aria, acqua, cibo, relazioni personali e sociali, sicurezza, un ambiente conosciuto dove potere esercitare le proprie capacità. I modi, tuttavia, in cui tutto questo può essere socialmente organizzate sono straordinariamente vari, come dimostrano gli studi antropologici, i resoconti etnografici e le analisi sociologiche. Nè vi è ragione per credere che le persone che sono vissute (o vivono ancora) nelle differenti culture che hanno organizzato questi modi fossero (o siano) meno felici nel condurre la loro vita di quanto ritengano esserlo i popoli che si autodefiniscono civilizzati. Prima dell’attuale omologazione forzata ogni cultura a suo modo interpretava i bisogni inserendoli all’interno di un sistema di senso condiviso. Tuttavia, quando compiendo un potente quanto dubbi sforzo di astrazione, si isola il singolo dalla propria cultura, dal proprio ambiente e dalle proprie tradizioni, trasformandolo in individuo isolato e mosso solo da impulsi egoistici diventa assai forte la tentazione di definire e computare i bisogni, tradurli in elementi osservabili, e sostituirli con merci e servizi calcolabili il cui ammontare e variare è ben espresso dalle serie di indici ed indicatori così cari agli statistici e ai pianificatori. Quello che viene distrutto e scompare in questa prospettiva è appunto la cultura, il sistema di saperi, le competenze che consentivano a quelle persone e popolazioni di muoversi con capacità in un ambiente conosciuto a sufficienza per ricavarne le risorse necessarie per vivere; la cultura appunto che dovrebbe consentire di interpretare e dare senso a quei dati evitando confronti indebiti tra soluzioni culturali incommensurabili.
Resta il fatto che questi indicatori esistono, possono essere molto utili a quanti li sanno usare con discernimento, ma allo stesso tempo, possono diventare molto pericolosi quando vengono assunti acriticamente, finendo col nascondere differenze e specificità, soluzioni alternative ed interpretazioni originali, riducendo la complessità creatrice della vita ad una partita doppia di elementi calcolabili e per questo apparentemente dominabili. Molti organismi internazionali a cominciare dalla Banca Mondiale hanno lavorato e lavorano indefessamente per descrivere il mondo attraverso questi standard numerici che, prescindendo dai contesti e dalle culture vitali (effettivamente ormai quasi distrutte) ci ritornano descrizioni asettiche basate su statistiche che ci illustrano stato per stato, contesto per contesto, l’ammontare del reddito pro-capite o la disponibilità di medicinali, l’assunzione calorica giornaliera o il numero di parti per donna, i posti letto ospedalieri e il numero di medici per abitante. L’immagine che il lettore sprovveduto ne ricava è quella di un mondo disomogeneo e lineare dove l’unica via percorribile appare quella dell’uniformazione e della sequela dei paesi ricchi da parte di quelli più arretrati. Questa costruzione del bisogno con la sua traduzione in criteri, indici ed indicatori nasconde in verità un approccio egemonico che impone classificazioni ed obiettivi cari alle burocrazie piccole e grandi: si tratta di una copiosa produzione di informazioni che mostra sempre la sterminata ampiezza del bisogno rispetto agli standard di vita degli stati (cosiddetti) più avanzati e delle popolazione più abituate al consumismo.
Questo modo burocratico di definire il bisogno, fondato sull’accettazione tacita della razionalità amministrativa e manageriale, sul potere pervasivo degli esperti, rimanda in fondo alla convinzione che sia possibile definire in modo oggettivo e scientifico la dimensione del bisogno nello stesso modo in cui un Amministrazione può calcolare le proprie entrate ed uscite o una fabbrica può calcolare la dimensione dei fattori di produzione. A cascata questo approccio generale si riversa a livello nazionale, regionale e locale ponendo sempre come assolutamente centrale il tema delle informazioni necessarie a calcolare il sistema degli indicatori previsti, indispensabili si suppone, per poter individuare e descrivere la dimensione del bisogno.
Una siffatta idea universalistica di bisogno, sembra, con tutti i suoi limiti, funzionare agli occhi di molti come garanzia rispetto ai rischi sempre presenti della deprivazione assoluta e della miseria che offendono molte sensibilità. Purtroppo i grandi progetti di cooperazione internazionale hanno dimostrato il drammatico fallimento delle buone intenzioni allorquando esse si scontrano con la rapacità di una certa politica, con l’implacabile logica delle burocrazie e, soprattutto, con la mancata comprensione e il rispetto delle culture contro le quali impattano. Questo non significa che lo sforzo sia comunque destinato al fallimento: purché vi sia profonda consapevolezza circa gli assunti e i limiti epistemologici, purché vi sia rispetto assoluto per le diverse concettualizzazioni e strategie culturali, purché non si ignorino le procedure con cui queste informazioni vengono costruite e il modo con cui vengono utilizzate, purché non si dimentichi che anche questo è un punto di vista culturale che non può essere imposto forzosamente, il tentativo di descrivere bisogni universali può essere molto utile.
2) Il mercato è l’unica soluzione efficiente per soddisfare i bisogni emergenti di ogni società?
Se la nozione di bisogno oggettivo universale rischia di essere priva di basi socialmente ed antropologicamente accettabili l’alternativa migliore è forse quella di ipotizzare che gli individui sappiano cosa è meglio per loro stessi incoraggiandoli a perseguire le loro mete e preferenze soggettive. Che dire tuttavia di quelle culture che sembrano differire così profondamente da quella occidentale ormai centrata sul trionfo della soggettività e sula pratica del consumismo come via per raggiungere la felicità? L’ideologia liberista spinge decisamente in questa direzione fino a fare del mercato l’unico meccanismo in grado di allocare efficientemente risorse scarse (speso contro ogni evidenza). Il mercato è certo un’istituzione onnipresente ed estremamente utile, ma come tutte le istituzioni richiede regole chiare, comportamenti coerenti, condivisione di valori. Ma il mercato a cui siamo abituati ha caratteristiche del tutto peculiari avendo perso in gran parte la dimensione del rapporto diretto tra persone a favore di una dimensione astratta fortemente finanziaria. Se una parte degli attori che si muovono nel mercato sono più grandi e potenti degli stessi Stati ed Enti che ne dovrebbero regolare ed indirizzare il comportamento (come succede per molte multinazionali e per le banche, per i grandi investitori istituzionali), se l’unico criterio per avere successo nel mercato è la massimizzazione del profitto, è molto improbabile che il sistema possa andare incontro ai bisogni basilari delle persone e, in particolare, di chi possiede poco o non possiede per nulla. In tale contesto è assai più semplice per i grandi player influenzare o corrompere chi dovrebbe fare le regole ed molto più redditizio manipolare preferenze ed aspettative di quanti sono già in grado di pagare per avere beni e servizi che sempre più spesso sembrano essere assai lontani dall’essere bisogni genuini. Il consumo per il consumo, il consumo per creare posti di lavoro, il consumo per far crescere il PIL diventano unici criteri necessari e sufficienti per tenere in vita un sistema condannato a crescere continuamente per non crollare vittima delle proprie stesse contraddizioni.
In questa società il consumo rappresenta la prova dell’esistenza di un bisogno a prescindere da ogni tipo di ulteriore considerazione. Ne consegue logicamente la spinta incoercibile ad individuare ogni possibile strategia tesa a scoprire nuovi bisogni ovvero a creare desideri ed aspettative sempre nuovi che possano sostenere le vendite. Questo punto di vista sul bisogno che viene indirizzato in ogni modo verso il consumo presuppone un idea di libertà come scelta tra opzioni disponibili e porta a sostituire al bisogno la soluzione predisposta socialmente; il bisogno di salute viene sostituito dal bisogno di farmaci e di medici, il bisogno di mobilità dal bisogno di possedere l’automobile, il bisogno di socializzare dai prodotti e dai servizi che facilitano l’interazione tra le persone, l’essere sostituito dall’avere. Viene creata così la sistematica percezione di una mancanza rispetto a qualcosa, di una felicità raggiungibile solo attraverso il consumo, di una costante e spietata competizione come condizione normale, dimenticando che un gioco di questo tipo promuovendo l’essere in costante competizione implica la percezione del sentirsi in stato di costante penuria.
È un altro punto di vista, imposto forzosamente dal sistema produttivo attraverso i suoi apparati di comunicazione e di lobbying, che usa la retorica della libertà per aumentare i propri profitti creando gravi problematiche ambientali, culturali e sociali. Anche questa prospettiva appare dunque tutt’altro che definitiva ed esente da rischi: il mercato perfetto (che non esiste) è un ottima soluzione se viene indirizzato e non diventa un feticcio il cui funzionamento risponde alla finanza senza avere più legami con la concretezza dei bisogni di persone ormai avezze a scambiare i problemi con le soluzioni proposte e a perseguire invano la propria felicità attraverso una sfrenata corsa al consumo.
3) Possiamo lavorare sui nostri bisogni esercitando la libertà per acquisire una nuova consapevolezza?
Sospeso tra la volontà di quanti impongono standard universali e di quanti manipolano la percezione di ciò che serve per raggiungere la felicità, il cittadino è sempre più spesso smarrito, vittima di una straordinaria confusione tra bisogni, desideri, aspettative, capricci, falsi e veri bisogni, esigenze, necessitò, bisogni indotti e fondamentali; tale confusione è costantemente alimentata dalla moda e delle strategie di marketing che diventano sempre più influenti e manipolatorie, da un educazione che sembra più finalizzata a costruire consumatori che persone responsabili. A fronte di questo però si assiste ad un grande sviluppo di tutti quei movimenti di ricerca ed auto-consapevolezza, a volte caratterizzati dalle più diverse connotazioni religiose e spirituali, a volte da scelte comunitarie e personali di decisa rottura che raccolgono persone che non si riconoscono più negli assunti della tramontante società tradizionale.
Il riconoscimento dei limiti e delle fragilità ma anche delle potenzialità e della creatività umana apre la strada ad un’idea di bisogno centrato sul protagonismo diretto della persona umana come essere sociale responsabile e libero anziché sugli standard e sulle norme prodotte dalle grandi burocrazie (siano esse gli stati o gli organismi internazionali) oppure sulla cultura del consumo forzoso fondato sul profitto e sull’egoismo irresponsabile (promosso dalla grande maggioranza delle grandi imprese private). Guardando sinceramente dentro di sé, (piuttosto che esclusivamente verso l’esterno), coltivando la propria capacità di discernimento, imparando a fruire criticamente delle tecnologie, scegliendo oculatamente in un mare di informazioni, sperimentando personalmente, imparando ad ascoltando i messaggi del corpo, facendo tesoro dei suggerimenti e delle storie di altre sperimentatori, l’uomo ha la possibilità di esplorare e comprende meglio la natura del suo bisogno. Può esercitarsi nel discriminare tra bisogni e desideri, tra bisogni e mezzi che la società mette a disposizione per soddisfarlo; può inserire coscientemente e liberamente accanto alla scelta di beni e servizi consentita dall’esistenza dei mercati e delle amministrazioni, la possibilità della frugalità, delle rinuncia, della fuga, dell’esperienza di altre culture, della povertà e dell’esplorazione creativa di soluzioni innovative non ortodosse come vie ulteriori per raggiungere la propria personale felicità.
Il bisogno depurato per quanto possibile degli orpelli e delle ideologie diventa allora il motore di una sfida con cui cimentarsi e la chiave possibile dell’evoluzione interiore. È il punto di vista di innovatori sociali, delle persone che cercano spazi di libertà personali non riducibili semplicemente alla scelta di beni e servizi, di coloro che credono che lavorare bene su se stessi sia anche il modo migliore di lavorare per gli altri, di quanti esplorano soluzioni personali che non conducono esclusivamente al consumo, di quanti credono che la libertà non sia riducibile al diritto di scegliere i propri rappresentanti e alla mera scelta di beni dagli scaffali di un supermercato.
4) Possiamo ancora credere in una società buona dove ognuno sperimenta e da in base alle proprie capacità e riceve secondo i propri bisogni?
Burocrazie e mercati sono istituzioni indispensabili ma perfettibili. I fallimenti delle burocrazie e gli insuccessi del mercato nel definire e nel rispondere in modo equo, efficace ed efficiente ai bisogni aprono spazi per la creatività e la scoperta di nuove soluzioni che non possono né semplicemente essere imposte dall’alto né derivare automaticamente dal meccanismo cieco del mercato. Il recupero di un protagonismo responsabile da parte dei cittadini appare quanto mai necessario: esso non sembra più riducibile esclusivamente all’obbligo del consumo e alla necessità di un lavoro per guadagnare in modo da poter consumare. Ma soluzioni concrete stentano ad emergere ed affermarsi malgrado la spinta della crisi, e, forse, non ricevono neppure la necessaria attenzione dei media troppo presi nella quotidiana celebrazione del mito della crescita e nella immancabile lamentazione sulla carenza di lavoro. A fondamento del cambiamento possibile sta anche una revisione della nozione di bisogno che ponga al centro dell’attenzione la persona nella sua totalità, con la sua biografia e nel suo ambiente. Si tratta di un cambiamento di atteggiamento che coinvolge persone, famiglie, comunità e di una modifica concettuale del modo con cui si guarda al bisogno da parte di associazioni, organizzazioni ed amministrazioni. Per garantire un minimo essenziale a tutti, la possibilità di scegliere tra beni e servizi e, soprattutto, la libertà di esplorare percorsi di senso creativi ed altamente responsabili alternativi allo statu quo.
Difficile, ma di certo è una sfida che potrà determinare la qualità del nostro futuro.