Il grande gioco dei bisogni (2): la sfida delle comunità e delle culture tradizionali

Posted by on 3 Maggio 2015 in Blog | 0 comments

Il grande gioco dei bisogni (2): la sfida delle comunità e delle culture tradizionali

Perché esiste un meccanismo che costantemente produce e riproduce il bisogno all’interno della società? Perché esiste un’industria del bisogno? Superato, almeno nei paesi ricchi, il problema della penuria di beni fondamentali, sono due i motivi che spingono il sistema: da un lato la necessità di alimentare costantemente i consumi in risposta alle straordinarie e crescenti capacità produttive rese possibili dalle nuove tecnologie e dalle modalità di organizzazione del lavoro e della produzione. Dall’altro la necessità di garantire lavoro alle persone per dare accesso ad un reddito spendibile in beni e servizi prodotti che vanno consumati. E’ questo l’unico gioco possibile?

Possiamo definire l’industria del bisogno come l’applicazione di una serie di tecnologie assolutamente moderne, ovvero come l’apparato trasversale e pervasivo che è finalizzato ad alimentare costantemente nuove richieste che possano sostenere il mercato dei consumi. In tal senso il suo risultato si contrappone diametralmente alle virtù della frugalità e del risparmio che hanno contraddistinto la vita delle generazioni fino a pochi decenni or sono; esso non rappresenta l’esito di una presunta natura umana insaziabile ma piuttosto l’effetto di un calcolo, di un progetto tutto interno allo sviluppo della società capitalistica.
Questo approccio al bisogno ha invaso ogni campo ed ogni settore e si avvale di una grande pluralità di organizzazioni, istituzioni, tecniche, processi e saperi per perseguire il proprio scopo; vi si trovano la moda, l’obsolescenza programmata, la pubblicità e il marketing (che usa a piene mani la retorica, le scienze sociali, le neuroscienze, la psicologia cognitiva e delle emozioni e dei sentimenti), il credito facile e le varie facilitazioni finanziarie. l’informatica con le su sempre più potenti app digitali, le agenzie educative tesa ormai a costruire consumatori più che cittadini. Si tratta di un ambito di lavoro tipicamente terziario (servizi) composto in buona parte da manipolatori di simboli e lavoratori della conoscenza cui, in ultima istanza, spetta il compito di convincere la gente (e le imprese) ad aumentare i consumi.
Esso non si limita all’economia di mercato ma si estende al settore pubblico e al terzo settore, dove legioni di specialisti della sanità, del sociale, del benessere, della comunicazione, dell’amministrazione e del diritto, dell’educazione e della formazione, sono al lavoro per scovare sempre nuovi bisogni su cui esercitare le proprie competenze.
In questo caso gli esperti e le organizzazioni deputate lavorano per far avere donazioni, per finanziare cause dopo averle caricate di pathos e di moralità, per modificare atteggiamenti e comportamenti, in fondo con lo stesso stile e le stesse tecniche che sono usate per vendere prodotti e servizi a pagamento.

Non si può prescindere da questa industria per comprendere la società dei consumi e dei servizi, i suoi effetti sulle persone e sull’ambiente, il fascino profondo che essa esercita su quanti ne sono esclusi e la repulsione che provoca in quanti ne sono rimasti intossicati, l’incessante tendenza a trasformare desideri spesse volte indotti in diritti.
Per capirne gli impatti bisogna uscire dal ragionamento puramente economico (neoliberista), dal punto di osservazione aziendalista, dalla logica dell’efficienza di mercato, del profitto e della finanza, ampliare la prospettiva integrando la visione ecologica, antropologica, sociologica, energetica; soprattutto bisogna assumere una prospettiva olistica globale, non riduzionista,

L’industria del bisogno definirà la natura e l’ampiezza dei bisogni di tutto il mondo? 

L’industria del bisogno ha assunto un carattere planetario che ben si coglie anche solo osservando criticamente i contenuti dei media (non solo la pubblicità). L’abbondanza di beni materiali spinge una parte del mondo più povero verso i paesi ricchi alla ricerca di lavoro e di un mitico benessere; d’altro canto le imprese (e forse più di una ong) vedono in questo mondo immiserito formidabili opportunità di fare affari, nuovi giganteschi mercati potenziali, sterminate distese di individui da trasformare al più presto in consumatori. Al polo opposto l’eccesso di consumismo crea nelle società ricche molti individui insoddisfatti, delusi dalla corsa costante al consumo che dovrebbe dare la felicità: nella loro ricerca di senso rivolgono l’attenzione anche verso i saperi di civiltà perdute e residuali, verso culture e religioni che i nativi affascinati dal consumo hanno spesso abbandonato come obsolete e inadeguate.
Ai popoli poveri, agli “arretrati” che non sono al passo coi i tempi, agli emarginati privi di potere, la modernità promette comodità, sicurezza e “cose” meravigliose: seduce con la promessa del benessere facile. Ma ai cosiddetti moderni, agli abitanti dei paesi ricchi, la primitività di certe culture marginali promette l’unica cosa di cui spesso mancano: significato, senso e mistero, re-incantamento del mondo. Ed è proprio questa domanda che, almeno in parte, valorizza e tenta di proteggere per meglio comprenderli ed applicarli in nuovi contesti, saperi e pratiche già pesantemente compromessi ed altrimenti destinati alla distruzione definitiva. Agli occhi dei cultori occidentali si tratta di forme sapienziali potenti, di tecniche, di saperi e di rituali capaci di attingere ai livelli più profondi della coscienza umana per ridare senso all’esperienza del vivere. Conoscenze e processi che fin troppo spesso escono dagli ambiti dell’antropologia, delle “scienze religiose”, dell’etno-medicina, e dell’etno-botanica per entrare nei mercati di consumo e diventare moda (come esemplarmente illustrato dalle numerose correnti new age).

La coazione costante al consumo indotta dalla artificiosa costruzione del bisogno spinge molti cittadini alla riscoperta della comunità, altri ne indirizza verso posizioni futuriste che vedono nella tecnologia la principale se non unica via di redenzione. Quanti dunque escono dai rapporti fondati esclusivamente sul consumo e cercano di dare forma ad un nuovo capitale relazionale, a forme di co-costruzione di senso usando come un bricoleur le risorse disponibili, si affiancano a quelli che, con scelta più radicale, abbandonano il campo ed abbracciano nuovi stili di vita basati sull’auto-sussistenza. Ciò che sovente li accomuna è la ricerca di un significato che la logica del consumo non riesce più a garantire, il tentativo di rispondere in modo più libero e personale a bisogni percepiti come molto importanti che non trovano buone risposte nel mercato ufficiale. C’è chi invece si circonda degli apparati tecnologici per isolarsi in comunità fortezza dotate di ogni confort e bene materiale, strettamente sorvegliate ed isolate dal contesto, triste preambolo di una possibile deriva asociale e distruttiva della società.

Gioco dei bisogni

L’industria del bisogno non ha ancora trasformato tutti i cittadini in meri consumatori, persone che usano il lavoro senza passione, con l’unico scopo di acquisire i denari indispensabili per consumare: per fortuna crescono gli innovatori sociali e gli imprenditori morali che sulla creatività e la passione costruiscono il loro successo spesso integrando tecnologie, sviluppo comunitario e creazione di senso; con essi si diffondono i commons collaborativi, intorno ai quali si sta forse strutturando un nuovo paradigma economico. Per fortuna non mancano reazioni diverse, interpretazioni meno passive, che si indirizzano ora verso la ricerca di senso, ora verso la costruzione comunitaria, ora verso il mito della tecnologia onnipotente; esse si ammantano spesso di connotati religiosi, di utopie ecologiste, di futurismo esasperato; si sviluppano dal rifiuto e dalla fuga da una società disumanizzate non meno che dalla valorizzazione di una sua componente a volte residuale. A volte privilegiano il locale, il territoriale, a volte il globale, il nomade; in alcuni casi valorizzano gli approcci democratici in altri l’esoterismo, si ispirano alcune alla scienza altre alla tradizione. In ogni caso tendono tutte a reinterpretare creativamente il bisogno mostrando che altre vie sono percorribili e possibili, che si può senz’altro rinunciare, almeno in parte, all’ortodossia delle definizioni ufficiali costruite dell’industria del bisogno e alle soluzioni che essa propone ed impone.
Si tratta di scelte sociali che interpretano diversamente i bisogni e che si confrontano, spesso senza saperlo, con uno dei temi più insidiosi del prossimo futuro: la distruzione di lavoro per causa dell’automazione, della robotica e delle nuove tecniche organizzative e gestionali che va di pari passo con l’enorme domanda di lavoro derivante dalla crescita demografica dei paesi più poveri. Un processo che impatterà in modo assolutamente drammatico sulla definizione dei bisogni, sui modo per soddisfarli e sull’intero pianeta.

Sarà possibile dare nuova speranza al futuro superando l’industria del bisogno?

Il primo fondamentale bisogno dell’uomo, soprattutto in questo tempo, è forse quello di interpretare e dar senso al mondo e alla vita in modo coerente. All’interno di una interpretazione coerente vi è spazio per una grande diversità di culture e modelli di vita: c’è spazio per le comunità intenzionali e per la decrescita felice, per il volontariato e le vecchie e nuove religioni, per la solidarietà e per la fuga, per la vita frugale e per il naturismo essenziale. Il consumismo, alimentato dalla macchina dei bisogni e dalla corsa sfrenata al successo, non rappresenta l’unica soluzione possibile per raggiungere quel senso di integrità sul quale si può fondare ogni possibile felicità umana. Ed è proprio su questo assunto che si fonda il potenziale liberatorio insito nel bisogno in un epoca dove le macchine già consentono una produttività complessiva più che sufficiente di beni materiali (purtroppo sprecati in una parte e assolutamente mal distribuiti). Si gioca qui, forse, intorno al perenne problema dei bisogni, la possibilità di un incontro fruttuoso e generativo tra culture differenti, tra tradizioni e saperi del passato e del futuro, tra diverse prospettive e visioni del mondo.

La creazione forzata del bisogno a sostegno del consumo si fonda ancora su una visione negativa dell’uomo, insufficiente a se stesso ed orientato al dominio e alla prevaricazione, che si muove egoisticamente per evitare problemi e che invano insegue la felicità attraverso il consumo irresponsabile. Serve invece una nuova immagine positiva dell’uomo, servono storie e miti vitali nuovi, di sostenibilità, di buona amministrazione della terra, di convivialità possibile, senza i quali la società è come  una nave senza timone in balia della tempesta.

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