Chi fa ricerca sociale e valuta, lavora quando deve e quando può, in pratica non si ferma (quasi) mai, forse perchè valutare e fare ricerca sociale sono lavori assai divertenti oltre che impegnative; gratificanti per chi vive la professione con passione ed entusiasmo. Ogni tanto qualche spazio di assoluta libertà si apre e allora…
Siamo in periodo di ferie. Si salutano i colleghi e si parte per il luogo scelto per la vacanza. Mare, montagna, lago, campagna, città storiche, monumenti contemporanei … chi più ne ha più ne metta a seconda degli interessi, delle possibilità e, perché no, delle circostanze.
Eppure proprio in un periodo di riposo e di allontanamento dalla routine quotidiana, il cervello si rigenera ed è particolarmente ricettivo.
Nei ritagli di tempo tra una passeggiata e l’altra si possono leggere libri e articoli sulle novità della valutazione e sulle ricerche più innovative che sono state fatte in Italia e all’estero.
Si può rianalizzare con calma qualcosa che si è fatto o scritto e che non ha ancora raggiunto il suo “giusto” compimento, ci si può confrontare con colleghi e condividere con loro dubbi e tribolazioni di questo anno difficile per l’Italia e per il mondo. E’ successo di tutto: rivoluzioni politiche, nuove leadership, crisi delle istituzioni, guerre, soprusi e migrazioni incontrollate. In Italia ci sono tanti “tavoli aperti” che urgono tentativi di soluzione: disoccupazione giovanile, riforma sanitaria, pensioni.
Con tutto questo si confrontano le azioni di valutazione di programmi, progetti e politiche (PPP) e con alcune riflessioni ricorsive che non è né lecito né utile abbandonare: – Cosa è esattamente la valutazione? – Quali caratteristiche ha? – Quali sono le sue potenzialità e i suoi limiti? – Quando la valutazione è utile quando, al contrario, non serve proprio a niente?. Etc.. Nonostante i tentativi di risposta a questi quesiti epistemologici si siano succeduti a raffica e continuino a succedersi a un ritmo sorprendente e ripetitivo che ha dello stucchevole, credo che il continuare a porsi queste domande, come singole persone che hanno fatto della valutazione un lavoro e come gruppi che condividono una solida missione valutativa, sia benefico per il cervello e per l’operatività.
In questo marasma di problemi e di contraddizioni tipico di un epoca post-moderna dove materiale immateriale si confondono, dove spazi e luoghi sono virtuali o fisici o, ancora di più e meglio, fisico-virtuali. In un mondo dove il “qui e ora” è una certezza mutuata dal mondo della finanza e il futuro contemporaneamente multiforme e vuoto, il valutatore naviga con i suoi strumenti da poco, le sue convinzioni sgretolabili dalla prova dei fatti e le sue tante saccenze. Ma io credo che in molto casi navighi anche con uno spirito libero e critico, con delle buone risorse cognitive e con delle utili conoscenze. Credo che il tenere vivo, per il proprio pensiero e per la propria coscienza, dei temi sui quali impegnare risorse riflessive possa continuare ad essere utile.
– Una prima serie di riflessioni utili e producenti è legata all’epistemologia della valutazione: cosa è, quando è nata, cosa la contaddistingue e differenzia in quanto scienza. Una cosa su cui io mi arrovello sempre è la seguente: il rapporto di differenziazione tra valutazione e ricerca sociale in quanto scienze che hanno una loro autonomia. Questo aldilà di paradigmi definitori rimescolati e livellati all’inverosimile. Astratte definizioni che diventano come aquiloni. (Volano ma perdono consistenza e rischiano di non avere più nulla di terreno). Un secondo tema che ha a che fare con l’epistemologia è la necessità di non confondere i seguenti ambiti di azione, una volta che li si è inquadrati in un paradigma definitorio rigoroso e riduttivo: ricerca, valutazione, valutazione della ricerca.
– Un secondo ambito di riflessioni che può essere utile per la ginnastica mentale dei valutatori è lo sguinzagliare il proprio cervello alla ricerca di pregiudizi valutativi dai quali nessuno è esente. Mentre l’azione valutativa procede, il valutatore costruisce, definisce, ri-definisce rapporti con le persone, con l’ambiente, con i costrutti sociali che permettono il riconoscimento e la differenziazione. Le relazioni e il contesto cambiano la percezione che uno può avere del sistema, si costruisce una nuova verità che in parte attinge dalle conoscenze/esperienze dirette e in parte è generata dal muoversi in quel contesto, in quel tempo dato. Possono cambiare le premesse strutturali attraverso le quali una realtà sociale è stata definita, se non generata. Centra tutto questo con la valutazione? Sicuramente sì. La valutazione è un costrutto sociale che non può prescindere da alcune regole condivise. Quali sono davvero queste regole e quali dovrebbero essere? (faccio un esempio: quando un programma è voluto fortemente da una parte politica senza che se ne siano definiti con rigore gli obiettivi da perseguire, cosa fa un valutatore? E cosa dovrebbe fare?)
– Un terzo tema mi sembra possa essere oggetto di seria riflessione estiva è quello dell’etica. Quali sono i principi etici che orientano e legittimano l’azione valutativa?. In questi ultimi 20 anni abbiamo assistito a un proliferare di paradigmi di riferimento che dovrebbero orientare l’azione valutativa in una direzione corretta. Il codice etico di un organizzazione, la missione aziendale, il codice etico di una associazione di riferimento, la deontologia professionale fatta di vincoli e di “eccezioni tacite” che i sistemi rigorosi per forza ammettono. Cosa fanno tutte queste “etiche” mescolate insieme? Fanno un minestrone dal quale ci si può salvare? Anche qui la risposta è sì. Ma penso che l’attenzione al tema e il perseguire questo tipo di rigore mentre si valuta, debba sottendere una tensione e una attenzione mai del tutto sopita che, solo in parte, passa dalla adesione a un codice etico ascritto ma, in buona sostanza, si srotola nella quotidianità e nella capacità del valutatore di ancorarsi a una sua idea di “Buono” e “Non buono”. Tutto questo ha delle radici culturali e innate (o no?) sulle quali terrei alta l’attenzione: – Sono io che sto facendo questo? – Questo è buono per me? – Per gli altri? – Per ora? – Per dopo?. L’equilibrio tra tutto questo pone il valutatore nella necessità di fare delle scelte di campo che non sono metodologiche, ma valoriali, che non sono ascritte, ma personali, che non sono organizzative ma di sistema, che non sono statiche ma in perenne mutamento.
– Infine direi che in vacanza uno si deve portare la positività. Il pensare che il mondo cambia e in ogni cambiamento c’è spazio per il miglioramento, che domani sarà un buon giorno, che le relazioni con le persone hanno sempre qualcosa da insegnarci, che lo stupore resta un’emozione nuova e auspicabile che insegna a guardare il mondo con occhi nuovi. Credo che un valutatore non debba perdere la capacità di stupirsi. Sentimento maturo e rigenerante che permette di vedere nelle azioni di valutazione esiti non previsti ma buoni, piste di miglioramento ascritte e auspicabili, strategie di analisi multiformi e sempre più “combinate” (qualitativo con quantitativo, documentale e partecipato, relazionale e osservato, micro e macro, qui e poi, noi e gli altri e … così via) utilizzando sempre più paradigmi e strutture valutative che provino ad abbracciare questo nostro, mutevole, stravagante, e a volte incredibile mondo, dando ragione del nostro essere, vivere e sbagliare ma anche del mostro imparare, guardare e capire.
Ogni valutazione dovrebbe permettere di verificare se la strada intrapresa è quella auspicata o, ancora di più, se è una strada “buona”. Se così non è il valutatore cambi, cerchi direzioni nuove, senza paura e senza ricriminazioni, senza rimorsi e senza ancoraggi a strutture inutili e a finte “protezioni” e voli libero verso la scoperta.