Esistono moltissime e pubbliche evidenze, documentate da ricerche serie, che illustrano il drammatico effetto dell’ambiente degradato e di certi stili di vita sulla salute e la qualità della vita stessa. Perchè allora molte Amministrazioni continuano a prendere decisioni pubbliche che vanno nel senso esattamente inverso?
Sappiamo tutti che l’ambiente, il contesto sociale nel quale viviamo, è in gran parte responsabile del nostro stato di salute e in ultima istanza di buona parte della nostra possibilità di essere felici.
Esistono migliaia di studi che mettono in luce le relazioni tra stato di salute e variabili di tipo socio-ambientale. Per l’esemplare chiarezza consiglio di leggere con attenzione RWilkinson-MMarmot-I-Determinanti-Sociali-Della-Salute. Di fronte alle evidenze raccolte dai ricercatori in tutto il mondo, non può essere taciuta l’azione capillare, mediaticamente supportata, esercitata da enti, organizzazioni, associazioni, che attraverso la mediazione dell’immancabile “esperto” intendono modificare comportamenti e stili di vita dei cittadini per orientarli ad una maggiore responsabilità nei riguardi della propria salute. Non può neppure essere negata l’azione di quanti si muovono per informare e movimentare la cittadinanza di fronte ai rischi per la salute.
Tuttavia, se qualcosa si è capito di sistemi sociali, di salute e di benessere, una domanda inevasa e ben più interessante sorge: per quale motivo molte decisioni politiche ed amministrative vanno nella direzione esattamente contraria alle raccomandazioni che si possono desumere dalle ricerche sui determinanti della salute?
Per quale motivo queste raccomandazioni non vengono poste a fondamento di ogni politica (prima del suo realizzarsi) e vengono invece invocate a danno fatto diventando l’arma di ideologie contrapposte e l’oggetto di discussioni pubbliche roventi quanto assolutamente inutili? Non ci vuole molto a capire che se ciò fosse fatto gli enormi costi sociali e sanitari generati dalla insensatezza di certe scelte potrebbero essere drasticamente ridotti. Tra le centinaia di esempi possibili prendiamo il caso dei danni ben documentati causati dall’uso eccessivo dell’auto (un pessimo costume molto italiano): l’uso privato è aumentato negli ultimi anni del 40 % spinto da incentivi finanziari, da infrastrutturazioni che attraggono sulle strade sempre nuovi utenti, dallo sfascio del servizio ferroviario, dalla assenza di politiche di mobilità (non di trasporto) e da politiche urbanistiche insensate che spingono ad edificare in zone per le quali l’unica possibilità di trasporto è fornita dall’auto.In questo gioco ha vinto l’interesse privato di alcuni a scapito del bene pubblico di tutti. In questo e in molti altri casi, assai semplicemente, i decisori pubblici (parlo per comprovata esperienza personale) considerano non pertinente l’introduzione di argomentazioni basate sulla produzione di salute e di agio sociale all’interno dei “loro” processi decisionali che sono vissuti come “tecnici”, urgenti e importanti.
Possibile che gli attivisti sociali non colgano questo nesso? Possibile che gli operatori del settore socio-sanitario non riescano a far valere la loro competenza in materia mettendo nel circolo di queste decisioni pubbliche il loro sapere sui determinanti sociali della salute? Possibile che politici ed amministratori non siano in grado e non vogliano comprendere e far proprie queste istanze che sono frutto del buon senso quanto della ricerca scientifica? Soprattutto, è possibile che i cittadini siano così ottusi da non vedere neppure questo tipo di problema, salvo quando si presenta in forma di effetto drammaticamente tangibile? A pensar bene abbiamo qui un colossale problema cognitivo di comprensione della complessità, un drammatico problema di integrazione, di comunicazione e di organizzazione delle decisioni politiche ed amministrative. Ma a pensar male… si fa peccato ma spesso si indovina…