La nostra società, le nostre organizzazioni, le nostre comunità, le nostre famiglie hanno bisogno di saggezza. Noi stessi come singoli individui dobbiamo imparare ad essere forse meno efficienti e razionali ma decisamente più saggi. In questo ci vengono in aiuto saperi antichi e conoscenze tradizionali maturate in ogni parte del mondo; culture e tradizioni che i leaders, i consulenti, i formatori e i manager più sensibili a volte riscoprono, inserendone qualche componente nelle loro strategie operative e nelle loro modalità di lavoro.
La complessità obbliga ad inventare nuovi approcci che siano in grado di coinvolgere persone e gruppi su livelli che non siano meramente legati al potere, alla norma, alla tradizione, o al semplice interesse. Oggi, al contrario, siamo ancora troppo abituati a concepire i fatti gestionali come nettamente contrapposti allo spirito visionario, le tacite regole comunitarie come contrapposte ad ogni azione direzionale. Così creiamo cesure tra manager ed imprenditori morali, tra uomini d’affari è difensori delle comunità, tra chi sembra esclusivamente orientato all’efficienza e chi è invece attento al prendersi cura di persone e relazioni. Almeno in parte si tratta di una deriva indotta sia da un eccesso di specializzazione che dalla chiusura autoreferenziale che tendono ad avere tutte le organizzazioni le istituzioni. Tale deriva porta a frammentare anche l’identità dei singoli soggetti, finendo con il privilegiare alcune componenti a danno di altre e dimenticando che ognuno di noi è, insieme, un corpo, un campo di emozioni, una mente pensante e una tensione spirituale. E’ proprio questo tipo di consapevolezza che è andata perduta e che si cerca di recuperare attraverso il ricorso alle fonti tradizionale ed etnografiche che trovano sempre più spazio anche nella letteratura di ispirazione manageriale. La sensibilità per queste pratiche è particolarmente elevata in tutti quei professionisti che sono impegnati in processi di trasformazione delle organizzazioni, piani di innovazione sociale, sviluppo di comunità resilienti. La ruota della medicina o cerchio sacro dei nativi americani è una di queste pratiche ancestrali che può essere tradotta in opportunità. Nelle culture native essa era vissuta come un potente rituale ma rappresentava anche il modo integrale di intendere i rapporti delle persone tra di loro, con la tribù e con il mondo.
Si dice infatti che esso permettesse una collocazione nel sistema naturale altamente equilibrata, finalizzata tra l’altro a sanare e a mantenere allineati gli individui rispetto all’armonia delle forze naturali; nello spazio sacro rappresentato dalla ruota della medicina le 4 direzioni corrisponderebbero ai regni minerale, vegetale, animale ed umano, che non possono esistere ne possono essere pensati separatamente l’uno dall’altro, am che sempre vanno considerati come un unico grande sistema vivente di cui essere parte. Questa filosofia è mirabilmente espressa da un capo indiano nel modo seguente:
Tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a se stesso.
Harrison Owen, antropologo e consulente inventore dell’Open Space Technology, ha tradotto questi principi, che ci appaiono oggi come frutto di un pensiero arcaico e primitivo, in strumenti utilizzabili operativamente anche all’interno delle nostre società apparentemente così razionali e tecnologiche. Egli ha collegato alla logica dei punti cardinali concetti che ci è più facile riconoscere e manipolare; nello spazio simbolico del cerchio possiamo dunque associare:
- al nord (che la tradizione nativa indicava con il cervo e il colore rosso) la nozione di mente e il concetto di leadership, intesa come l’azione di dare la direzione, di aprire la strada;
- all’est (che i nativi associavano all’aquila e al colore blu) la nozione di spirito e il concetto di vision intesa come la capacità di immaginare un futuro fondato su un sistema di cui si riconosce la complessità;
- al sud (che la tradizione associava al topo e al colore giallo) il mondo delle emozioni e l’idea di comunità intesa come legame tra le persone;
- all’ovest (che i nativi vedevano rappresentato dall’orso e dal colore verde) il corpo e la nozione di management (gestione) intesa come capacità di organizzare i dettagli della vita in comunità.
La saggezza dei nativi americani, ci ricorda Owen, riconosce che in ogni persona, così come in ogni organizzazione, esistono queste quattro dimensioni di cui sempre bisogna tener conto e di cui sempre bisogna prendersi cura.
Dunque, se si percorre il cerchio in senso orario dobbiamo prendere atto che la leadership si può manifestare pienamente come arte di definire obiettivi e di lavorare per il loro raggiungimento, solo se manifesta una visione sistematicamente responsabile, se si cala all’interno di una comunità di persone capaci di stare insieme essendo reciprocamente ingaggiate in un percorso comune e se, infine, esiste una gestione degli aspetti quotidiani che organizzi le intenzioni in un fare concreto che si manifesta in comportamenti adatti e coerenti. Fin troppe volte invece si trovano dirigenti (non veri leader) privi di visione, per nulla attenti alla sorte degli altri, al più interessati agli aspetti puramente gestionali del funzionamento organizzativo; si trovano visionari privi di concretezza o persone esclusivamente focalizzate sugli aspetti immediatamente relazionali senza la minima consapevolezza sistemica; si trovano persone troppo centrate sul rispetto della norma e delle routine codificate.
Il messaggio della ruota della medicina è invece chiaro: essa ci indica che le quattro dimensioni sono presenti in ogni individuo comunità ed organizzazione, che tutte sono necessarie ma nessuna è sufficiente; che esse devono convivere in equilibrio dinamico. Ma non solo. Owen ci ricorda che l’ordine, in questo ciclo, è importante: partendo dal versante management (e/o focalizzandosi esclusivamente su di esso) si finirebbe per costruire un artefatto meccanico che non scalda il cuore, un organizzazione formalmente ineccepibile ma non i grado di attivare le risorse emotive e l’energia necessaria per motivare e spingere all’azione. D’altro canto partire dalla comunità concentrandosi esclusivamente su di essa, porterebbe alla creazione di un sistema disarticolato, scarsamente orientato ed incapace di operare al di là di quelli che sono i comportamenti tradizionali basati sul senso comune; partire e focalizzarsi solo sulla visione condurrebbe ad esprimere alte filosofie pretendendo poi che altri vi si adeguino e le mettano in pratica
Per prendersi cura con successo di comunità, piani, imprese ed amministrazioni serve un nuovo approccio diffuso, fondato su passione e responsabilità, apertura e consapevolezza sistemica, impegno diretto e chiaro orientamento; serve una leadership orientata a costruire mondi al quale le persone desiderino appartenere; servono persone motivate, seriamente intenzionate a perseguire una visione all’interno di una comunità ben organizzata che intenda seriamente diventare protagonista del proprio destino.
Bene. Chi accetta la sfida della ruota della medicina?
Si può fare. Passaparola!