Siamo esseri sociali che abitano un ambiente altamente tecnologico in rapida evoluzione; direttamente o indirettamente ognuno contribuisce a sostenere questo cambiamento che modifica velocemente le condizioni di vita ed obbliga ad un costante apprendimento di conoscenze che diventano sempre più indispensabili per godere dei benefici del cosiddetto progresso e non rimanerne vittime. Viviamo immersi in un flusso enorme di informazioni che per essere soggettivamente governato richiede conoscenze ed abilità che possono essere acquisite solamente in un processo che dura per tutta la vita.
Non possiamo vivere bene, di essere in qualche modo protagonisti nella società della conoscenza, senza pensare di imparare costantemente durante tutta la vita; in un mondo in cui l’unica cosa costante è il cambiamento, non solo dobbiamo costantemente imparare ma, soprattutto, abbiamo bisogno di imparare ad imparare, passare dall’apprendimento di primo livello a quello di secondo livello (deuteroapprendimento). Il concetto di educazione permanente che riassume quest’idea nasce all’interno del fiorire della società industriale, dove si dava ormai per superato l’antico paradigma della competenza artigiana, con le sue istituzioni della bottega e della corporazione, che erano state per secoli la struttura portante della abilità produttiva. Esso è il risultato di un lungo processo di elaborazione e di specificazione avvenuto a livello internazionale nell’arco di parecchi decenni. È principalmente nell’ambito dell’educazione degli adulti e di alcune specifiche domande emerse in tale contesto (la “lifelong education” appare nel vocabolario dell’educazione anglofona già nel 1920) che il concetto di educazione permanente ha trovato, in alcuni paesi ed organizzazioni internazionali ampia diffusione, portando al superamento della concezione in base alla quale si apprende solo in alcune fasi dello sviluppo umano. Attorno al 1930, si è sviluppata una concezione di educazione strettamente connessa all’idea di istruzione popolare, con un accento sulla formazione del lavoratore (l’operaio tipicamente) allo scopo di migliorarne il rendimento lavorativo. È a partire dal 1960 che il concetto di educazione evolve in quello di apprendimento, si sviluppa in quello di apprendimento continuo (lifelong learning) alimentato da diverse fonti e canali, per sfociare infine in una definizione che mette in risalto i tre livelli della cosiddetta educazione formale, non formale ed informale.
1) La letteratura definisce educazione formale quella che si realizza nelle istituzioni destinate all’istruzione e alla formazione e che si conclude con l’acquisizione di un diploma o di una qualifica riconosciuta. L’obbligo scolastico che ne è parte è dato talmente per scontato che stentiamo ad immaginare un mondo organizzato in modo differente. In Italia, gli attori dell’educazione formale, le agenzie che erogano questi particolari servizi, sono facilmente identificabili poiché coincidono con gli enti giuridicamente preposti all’educazione, alla formazione e all’istruzione riconosciuta e parificata.
2) Con educazione non formale si fa riferimento a tutte quelle attività educative organizzate al di fuori del sistema formale (nei luoghi di lavoro, nelle organizzazioni, nei gruppi della società civile, nelle associazioni, nelle chiese etc). Esse si rivolgono ad audience ben individuabili con obiettivi di apprendimento specifici come quelli che caratterizzano la formazione aziendale e l’aggiornamento professionale; solitamente non è prevista l’acquisizione di titoli di studio o qualifiche riconosciute, ma la sola attestazione di frequenza, o a volte, la certificazione delle competenze acquisite. Pur essendo riconosciuti anche dall’Unione Europea i sistemi di educazione non formale non hanno in Italia lo stesso riconoscimento attribuito al sistema di educazione formale.
3) Infine, quello che caratterizza l‘educazione informale è un processo non legato a tempi o luoghi specifici, attraverso il quale ogni individuo acquisisce (anche in modo inconsapevole o non intenzionale) attitudini, valori, abilità e conoscenze dall’esperienza quotidiana, dalle influenze e dalle risorse educative nel suo ambiente: dalla famiglia e dal vicinato, dal lavoro e dal gioco, dal mercato, dalla biblioteca, dal mondo dell’arte e dello spettacolo, dai mass-media, dagli hobby e dalle attività del tempo libero, dagli artigiani e dagli amateur. Gli attori di questo contesto, le agenzie educative informali, sono davvero i più disparati, difficili da definire concettualmente e da individuare concretamente; spesse volte li abbiamo proprio sotto agli occhi ma non riusciamo a vederli perché non siamo attrezzati per considerarli dal punto di vista della conoscenza.
Possiamo dunque immaginare il nostro mondo come popolato da una pluralità di agenzie educative formali, non formali e informali, con le quali entriamo in relazione durante tutta la nostra vita. L’individuazione di questi ambienti si sta rivelando sempre più importante nelle strategie di vita degli uomini e delle donne contemporanei poiché consente (o al contrario impedisce) l’accesso a processi di organizzazione delle informazioni dai quali dipende il successo delle biografie personali e collettive. Ogni creativo sa che una formidabile fonte di ispirazione è proprio la capacità di osservare e riflettere criticamente su fatti, eventi e processi, collocati in ambiti diversi rispetto a quelli dell’impegno quotidiano.
Alla luce di questi sviluppi l’educazione permanente si configura come un processo che coinvolge sia la persona che la società; al primo livello sfida gli individui a definire le proprie traiettorie biografiche in termini di relazioni di apprendimento derivanti dalle interazioni con i tre tipi di agenzia formale, informale e non formale; al secondo livello si manifesta come processo sociale strategico, non solo per produrre le conoscenze indispensabili al buon funzionamento delle organizzazioni (dalle imprese alle amministrazioni), ma anche come indispensabile meccanismo per la produzione di cittadinanza e del capitale sociale indispensabile per creare la base di fiducia necessaria al buon funzionamento del sistema sociale.
Ora in questo quadro già complesso le tecnologie digitali irrompono massicciamente rivoluzionando schemi ed approcci, mettendo in discussione stereotipi e regole, aprendo enormi spazi per l’innovazione. Questa rivoluzione investe grandi numeri di persone per effetto degli sviluppi resi possibile da Internet, ma, dal punto di vista concettuale ha radici che risalgono senz’altro al secolo scorso. Di gestione della conoscenza (knowledge management) si parla dalla metà degli anni ’80, periodo nei quale prendeva forma tecnica la riflessione sul passaggio da “saperi subiti a saperi scelti” retaggio della rivendicazioni giovanili degli anni ’60. E già all’inizio degli anni ’90 in Francia prendeva piede per opera di un gruppo di intellettuali innovatori (Levy , Authier e Serres) la proposta, per certi versi rivoluzionaria, degli alberi di conoscenza, un tentativo ardito per mappare le competenze personali (acquisite per via formale, informale e non formale) e seguirne lo sviluppo nel tempo all’interno di qualsiasi aggregato sociale.
Oggi, oltre 20 anni dopo, disponiamo di strumenti inimmaginabili allora: esistono ampie piattaforme digitali supportate da una formidabile infrastruttura hardware, le competenze adatte a sviluppare applicazioni (app) sono molto diffuse, i costi delle tecnologie digitali sono molto più bassi, esiste molta più consapevolezza circa i meccanismi umani di apprendimento. Sembra però ancora mancare un indirizzo, una strategia, una visione capace di affrontare non solo i singoli problemi di conoscenza, ma di integrare in un ambiente formativo (o educativo) unitario e abilitante i tre campi ancora separati dell’educazione formale, non formale e informale. Oggi forse, i tempi sono tecnologicamente maturi perché prospettive visionarie, come quella che fu degli alberi di conoscenza, possano essere sviluppate in modo nuovo, usando la straordinaria potenza di calcolo dei nuovi computer che consente di analizzare big data e la prospettiva social che vede gli utilizzatori della rete come i reali produttori interconnessi di una mole sterminata di informazioni.
Forse il momento in cui i nostri curriculum vitae raccoglieranno in tempo reale tutte le nostre capacità e i nostri saperi, in cui sarà possibile conoscere rapidamente il capitale di competenze di una intera comunità (azienda, città o gruppo), in cui l’apprendimento risulterà facilitato e reso più divertente, non è poi così lontano. Gli algoritmi delle grandi dot.com sono già in grado di sintetizzare informazioni e di fornirle in forma che può essere velocemente trasformata in conoscenza personale, mentre l’internet delle cose alimenta in modo esponenziale la quantità di dati che questi algoritmi possono elaborare.
Questa integrazione tecnologica è la base fisica e tangibile della futura città della conoscenza: essa tuttavia non potrà sviluppare tutte le sue potenzialità positive senza un corrispondente tecnologia sociale che faccia esplicito riferimento ad un orientamento valoriale e ad una profonda consapevolezza da parte dei cittadini. Le iniziative di innovazione sociale reagiscono appunto a questo tipo di necessità, rispondendo creativamente e pragmaticamente alla sfida lanciata dalle nuove tecnologie, a volte recuperando e reinterpretando tradizioni e soluzioni che sembravano irrimediabilmente perdute.
Intanto però ognuno può iniziare a riconoscere da quali agenzie educative è circondato e cosa può imparare da ognuna di esse, può catalogarle ed impostare un proprio personale percorso di autoformazione. L’innovazione parte proprio dal pensare in modo differente, dal vedere le cose con occhi diversi.
Think different! Si può fare, passaparola!